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Segnocinema
Rivista cinematografica bimestrale

n. 142, anno XXVI, novembre-dicembre 2006, € 6,00
ISSN 0393-3865
E la Tv andò all’assalto di Segnocinema. Potrebbe sembrare una provocazione, in realtà è proprio ciò che accade nel numero 142 della rivista, con il curatissimo e importante speciale Mondi a puntate: le serie televisive americane 1990-2006, che analizza un fenomeno mediatico molto significativo, che si è imposto all’attenzione in questi anni per la pregnanza dei propri mondi narrativi e per l’originalità dell’impianto stilistico. E non a caso questo tentativo di analisi avviene sulle pagine di una rivista cinematografica come Segnocinema, che ha sempre cercato di tenere aperta una finestra sulla Tv e sull’evoluzione dei suoi codici audiovisivi, proprio per spegnere quel "pigro silenzio dei critici" (sono le parole dei due curatori dello speciale, Terrone e Bandirali), attraverso la rubrica SegnoSerieTv, ad esempio.

Ecco allora che lo speciale affronta il problema da punti di vista differenti, con interventi di indubbio spessore: l’approccio sociologico di Sergio Brancato, quello semio-pragmatico di Paola Valentini, quello ermeneutico di Attilio Coco, quello musicologico di Giuliano Tomassacci, e infine la retorica del cinema nell’intervento conclusivo dei curatori.

Apre il saggio della Valentini, Genere/Serie, in cui l’autrice definisce i contorni del rapporto tra genere e serie televisive: "I rapporti tra cinema e serie agiscono vicendevolmente a tutti i livelli del genere: da quello tematico […] a quello sintattico […], da regimi di sguardo […] a reciproche suggestioni iconografiche […]", tanto da potersi spingere a considerare la serie come genere (di cui indagare echi e ricadute con il cinema) "interfaccia e processo osmotico potenzialmente in grado di scombinare gli equilibri originari"; infatti "la vera contaminazione crea un’impurità nelle tracce generiche e uno spiazzamento nell’orizzonte delle attese, generando quella confusione e instabilità che trova indubbiamente il suo archetipo televisivo in I segreti di Twin Peaks, in cui horror, soap, noir e grottesco si mescolano e tutto si ribalta e si confonde continuamente senza offrire un punto di riferimento stabile e necessario" (pp. 13-14). Giocare insomma con le forme "disfatte" del cinema sembra offrire alla serialità televisiva sempre nuova linfa vitale. Rifondazione del genere, insomma.

Ne Il sesso, la città e la morte Brancato traccia una storia sociologica delle tv-series dalle origini negli anni Cinquanta fino ad oggi. E’ un viaggio da Superman a CSI attraverso l’evoluzione sociale stessa degli USA e delle forme di spettacolo come il cinema, il fumetto e la radio: "trasportando la visione delle immagini in movimento dall’esterno del territorio all’interno della dimora, la ritualità che aveva caratterizzato il cinema deve acquisire forme nuove. […] Le serie televisive, soprattutto negli ultimi tre lustri, mettono in discussione l’identificabilità stessa dei generi tradizionali dell’industria culturale, traghettando la sensibilità dello spettatore verso un altro luogo dell’immaginario in cui il rapporto con lo spettacolo e le sue ripetizioni muta in accordo a un cambiamento complessivo della società" (pp. 17-18).

Molto interessanti anche gli altri due interventi, quello di Tomassacci (Musica d’interno) sulla declinazione del Tv-scoring dagli anni Sessanta alla modernità, in cui si analizza il complesso avvicendarsi delle composizioni musicali e la loro eterogenea significazione all’interno delle serie televisive, e quello di Coco (Le serie tv e le esperienze del transito), in cui si cerca di spiegare perché le serie televisive abbiamo come caratteristica qualificante quello del mutamento perpetuo del loro statuto, in un universo "neo-mitologico" in cui umano (la ragione) e sovrumano (l’occulto, il destino) operano a stretto contatto e si compenetrano. Chiude lo speciale l’intervento di Terrone e Bandirali sulla retorica del visibile televisivo nelle forme e nei modi propri del cinema (sceneggiatura, scenografia, recitazione, regia, luce, suono ecc.), dimostrando che sotto molti punti di vista le serie tv azzerano il luogo comune di essere un semplice surrogato o una sorta di riduzione rispetto al cinema perché presentano spesso un’impressionante e originale ricchezza di elaborazione.

Per la rubrica Saggi e interventi c’è da registrare la tanto attesa risposta che Roy Menarini dà a un intervento eccessivamente polemico pubblicato da Bandirali e Terrone su Segnocinema n 140 (All’armi siam gli autori); in Fuori l’autore, dentro l’autore si riafferma l’esigenza di difendere, nella "foresta" del cinema contemporaneo, proprio il cinema d’autore, che sempre più appare come l’unica ancora di salvezza rispetto non solo allo strapotere del cinema commerciale, ma anche contro la rivalutazione dei b-movie che la critica da qualche tempo ha inaugurato, e contro il mercato del blockbuster, cioè del cinema di puro e semplice consumo. Difendere oggi il cinema d’autore, quello vero, significa anche combattere quello che Menarini chiama giustamente "fascistizzazione" della cinefilia contemporanea, cioè "l’idea di accumulo e passione, il rifiuto di ogni steccato, il desiderio di apparentare con mille occhi Satyajit Ray e Fernando Di Leo, sono oggi paradossalmente rovesciati: domina Joe D’Amato e ci si vergogna di dire di amare Bresson"(p. 5).

Gli altri due saggi della rubrica ci portano tra le nuove inquietudini del cinema americano. In Filming America Side B Andrea Bellavita compie un interessante viaggio attraverso un cinema che cerca sempre di più di rappresentare le torsioni e le paure di un Paese che dopo l’11/09 sembra sempre più sperduto privo di identità, che si interroga continuamente siu ciò che è giusto o no. Tra le varie rappresentazioni Bellavita trova il possibile filo rosso nella rappresentazione di un conflittuale rapporto generazionale tra padri e figli che prima si dimenticano, poi si ritrovano riconoscendosi reciprocamente. L’altra faccia della medaglia potrebbe essere quella illustrata da Davide Turrini in Ve la diamo noi l’America in cui si analizza l’uso politico dell’immagine in due film direttamente legati alla rappresentazione dell’11/09 (United 93 e World Trade Center) che per Greengrass e Stone è l’esaltazione di un’impresa avventurosa e l’elaborazione del lutto esclusivamente attraverso la sua celebrazione. […] La spettacolarizzazione di questi presunti dati reali diventa quindi la grammatica di una messa in scena deficitaria dal punto di vista prettamente documentaristico, ricattatoria dal punto di vista morale" (p. 10).

Chiudono il numero 142 un bilancio della Mostra del Cinema di Venezia (con un intervista a Manoel De Oliveira sul suo film Belle toujours), uno del Festival di Locarno e per la rubrica Segni Infranti l’analisi di un classico, The Bellboy (1960), il primo film di Jerry Lewis

Marco Luceri


Segnocinema n. 142

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