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Roberto Alonge

Il teatro dei registi


Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 192, € 18,00
ISBN 88-420-7368-7
In una collana che minaccia di essere prevalentemente didattica e in un’epoca in cui si comincia a sentire il bisogno di abbandonare al loro destino manuali, manualetti e neo-bignami (con tutto il rispetto per questi "strumenti" che tanto servirono alle generazioni di studenti dell’obbligo), il libro di Roberto Alonge sorprende e riabilita un genere.

Si può discutere la scelta dei registi adoperati per segnalare in meno di duecento pagine le tappe capitali della nascita e sviluppo della regia teatrale nel mondo. Ma l'uso intelligente delle presenze è sufficiente a placare eventuali rimostranze. Questo non è infatti un deposito di informazioni bibliografiche o un cumulo di notizie che vuole risultare esaustivo come un elenco telefonico; questo libro è piuttosto un trattato sintomatico, un cahier de notes che illumina per lampi un vastissimo territorio privilegiando nella narrazione quei rilievi e quei picchi che meglio possono da soli chiarire il paesaggio e i percorsi della regia teatrale.

Una volta il grande D’Arco Silvio Avalle seppe leggere la poetica e l’opera omnia di Eugenio Montale muovendo da un limitato campione di versi. Qui alcuni nodi critici servono a spiegare meno i singoli artefici della regia quanto piuttosto alcune questioni che oltrepassano la responsabilità individuali. In questo modo si fornisce una mappa di grande interesse storico e metodologico. La rilevazione dei tratti pertinenti di ciascun artista (o Maestro che dir si voglia) serve ad aprire un ventaglio di riflessioni su che cosa si debba intendere con la parola e con il concetto di "regia".

Superando la barriera che la tradizione ha innalzato all’altezza di Antoine dei Meininger e di Wagner, e seguendo alcune intelligenti indagini svolte da Franco Perrelli - il cui studio, La seconda crezione. Fondamenti della regia teatrale (Torino, Utet-Libreria, 2005) ampiamente discute e apprezza - Alonge anticipa al primo Ottocento la nascita di una direzione scenica, che per quanto confusa sul piano teorico, progressivamente sottrae la fabbricazione e le repliche degli spettacoli alla pura e semplice concertazione degli attori. L'opera di artefici che non furono né scrittori né capi macchinisti, è osservata in questo libro con occhio scevro da pregiudizi ideologici. Prevale l'attenzione per le fonti minori dello spettacolo francese di primo Ottocento, dai livrets de mise en scène agli scritti di varie riviste fra cui la "Revue du Théatre", dal manuale di un suggeritore parigino del 1830 alle testimonianze di numerose figure dell'artigianato o del giornalismo teatrale parigino, laddove si segnalano i tentativi più o meno lungimiranti di dare vita ad una organizzazione delle azioni sceniche condotta al di sopra degli interessi e degli egoismi attoriali, al servizio di un efficienza neo-industriale.

L'originale ricostruzione del lessico adoperato dai giornalisti e dagli operatori teatrali del tempo per descrivere le diverse fasi della produzione e della costruzione degli spettacoli all'interno dei cantieri scenici parigini consente di rilevare la progressiva presa di coscienza del fenomeno che si chiamerà mise en scène. La novità dell'analisi di Alonge consiste nella messa in discussione del teorema - a mio avviso tipicamente novecentesco e idealistico - che spiega la nascita della regìa soprattutto con motivazioni ideologiche ed estetiche basate sulla contestazione della tradizione. Nei primi due capitoli di questo libro il fenomeno appare, almeno alle sue origini, più come la conseguenza di una serie di necessità materiali che come il frutto di un progetto: "La nostra è storia del teatro materiale, che deve cogliere - anche, prima di tutto - la dimensione bassa, commerciale, di un'impresa che resta, appunto, un'impresa, segmento di un'organizzazione che partecipa dell'industria dello spettacolo. La nascita della regia ha a che fare con questo impasto di soldi e di appetiti, di vanità e di narcisismi, ma anche di semplici richieste di modi per sbarcare il lunario. La professione del regista è una nuova professione, indotta da questo sviluppo del teatro che stiamo descrivendo" (p. 8).

E' altrettanto evidente che senza lo slancio talvolta visionario, sicuramente élitario, ma anche rivoluzionario, delle avanguardie tardo-ottocentesche e novecentesche, la storia della regìa sarebbe inspiegabile. Ma a ridurre ulteriormente lo spazio a spiegazioni prevalentemente teoriche se non ideologiche del fenomeno, quando si tratta di illustrare l'opera di protagonisti del secolo appena trascorso, Alonge preferisce concentrarsi, più che sulle idee dei Maestri, su alcuni esempi del loro lavoro. E lo fa partendo dai testi messi in scena. Naturalmente misurati di volta in volta con le "letture" che i registi chiamati in causa ne hanno saputo dare. Senza trascurare i princìpi (o i preconcetti) che ciascuno di loro volle mettere in opera nel corpo vile dello spettacolo, l'unità di misura delle interpretazioni è stabilita sempre dal sacro riferimento all'opera scritta del drammaturgo, comunque essa sia stata interpolata, tagliata o amplificata. Il duello tra l'Autore dello scritto e l'Autore dell'azione scenica diventa l'argomento principe del resto del libro, approdando alle riflessioni inequivocabili dell'ultimo capitolo che riproduciamo nella sezione Saggi.

Già nel secondo capitolo si può leggere un'analisi sintomatica dell'allestimento di Chatterton di Alfred de Vigny (1835) basata anche su alcune note manoscritte dell'autore, destinate poi a confluire nell'edizione a stampa dell'opera. "Dal manoscritto al copione del suggeritore, attraverso le prove, fino al testo a stampa, che fa tesoro dunque del lavoro di allestimento" emerge nell'interpretazione di Alonge il combattimento di anima e corpo, fra lo scrittore-protoregista e i suoi interpreti. Ma l'analisi delle "varianti" dal testo alla scena costituisce il filo rosso concreto e visibile che dà concretezza a tutto il ragionamento critico: frequente è invece l'abitudine dei nostri storici del teatro - soprattutto quelli operanti intorno al Novecento - a ragionare, riflettere, teorizzare e meditare intorno alle loro idee confrontate con le idee dei teatranti a loro volta misurate sulle idee di altri teatranti, in ultima analisi con le velleità degli uni e degli altri.

Qui per fortuna, con l'ausilio delle fonti dirette ora della variantistica ora delle registrazioni video, ci si fonda sulle opere e non sulle chiacchiere. Due volte si rilegge uno testi più fortunati della drammaturgia europea (Otello di Shakespeare) osservato nelle sue diverse metamorfosi registiche: ad opera del citato Vigny, in collaborazione con l'attore Montigny (pp. 32-36) oppure ad opera di Stanislavskij (pp. 72-84), in entrambi i casi basandosi su riscontri testuali attendibili. E così il lavoro di Antoine è osservato attraverso la lente d'ingrandimento della lettura di Spettri di Ibsen (pp. 58-65), mentre Le cocu magnifique di Crommelynck (pp. 89-97) serve a fornire un breve specimen del metodo di Mejerch'old, alla stessa maniera l'analisi assai protratta della messa in scena brechtiana di Madre Courage (pp. 103-118) si presta a un difficile e complesso discorso circa la coincidenza dei ruoli di regista e drammaturgo. Seguendo il metodo dei "casi esemplari" il libro si sofferma ancora sulla regia di Ronconi per la Mirra di Alfieri (pp. 133-127), su quella di Arianne Mnouchkine per il Tartuffe di Molière (pp. 141-148) oppure mette a confronto tre diverse letture di un medesimo testo d'autore: così la Trilogia della villeggiatura di Goldoni è l'unità di misura per comprendere le diverse visioni registiche di Strehler, Ronconi e Castri (pp. 119-132).

Lo stesso procedimento per exempla viene adottato per Grotowski e Barba (pp. 149-168) e per Kantor (pp. 169-178). Nel caso dei primi due la lettura di un testo-spettacolo risulta tuttavia impari a cogliere il senso di una militanza che fu (ed è) prima di tutto teorica e metodologica e poco ha da spartire con l'acuta attenzione drammaturgica che Alonge dedica ai testi-spettacolo. Quell'attenzione che di nuovo sembra appagata dal confronto con un'opera tutta materica come quella di Kantor, forse il più grande Autore teatrale della seconda metà del secolo XX, insieme a Beckett (anche lui regista non meno che scrittore).


di Siro Ferrone


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