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Segnocinema
Rivista cinematografica bimestrale

n. 139, anno XXV, maggio-giugno 2006, euro 6,00

Il numero 139 di Segnocinema si apre con un saggio di Mauro Caron, Vizi di famiglia, che tenta un’operazione ambiziosa, cioè descrivere il modo in cui il cinema contemporaneo rappresenta la famiglia, quella che è ancora "la forma naturale e primigenia dell’organizzazione sociale" (p. 4). Il film di famiglia sembra sempre più essere una sorta di metagenere che prevede e alimenta stilemi di tutti i generi: dall’horror al western, dal musical alla commedia. Oggi, più che nel passato, la rappresentazione cinematografica della famiglia tende a caratterizzarla come "un set caotico, in cui i vari componenti recitano una parte abbozzata e non definita, un ruolo basato su un canovaccio che in parte è sclerotizzato dalla permanenza di caratteristiche che lo apparenta alla maschera, in parte è mutevole secondo l’interazione con gli altri attori, legato all’improvvisazione e aperto alla ridefinizione del ruolo" (ibidem). Partendo da questa premessa Caron ripercorre la complessa galleria delle figure cinematografiche della famiglia, riassunte in due forme preminenti e particolarmente significative di forte crisi, come l’assenza e la falsa rappresentazione. Da un lato cioè le figure legate all’assenza (desiderio, nostalgia, lontananza fisica e morale), e dall’altro una doppia rappresentazione, in cui la famiglia viene raffigurata quale i personaggi la rappresentano a se stessa o agli altri. Ne consegue che sono ben definibili i filoni a cui ricondurre la gran parte le rappresentazioni della famiglie che il cinema ha costruito negli ultimi anni: padri che cercano i figli (da Le chiavi di casa di Amelio a Non bussare alla mia porta di Wenders), figli che cercano i padri (da Una canzone per Bobby Long di Gabel a La fabbrica di cioccolato di Burton), assenze e ritorni (da Rosetta dei Dardenne a La mala educaciòn di Almodovar), false famiglie o famiglie false (da Buffalo ’66 di Gallo a History of violence di Cronenberg), famiglie alternative (da Le fate ignoranti di Ozpetek a Idioti di Von Trier), senza dimenticare di menzionare quegli autori per cui la rappresentazione della famiglia è il più importante snodo poetico e tematico (i fratelli Dardenne e Salvatores, ad esempio) o un film come Tutto su mia madre, che sembra riassumere in se tutti i filoni menzionati. Segue una dettagliata e utile filmografia.

Il secondo saggio, firmato da Matteo Bisato, prende le mosse dall’ultima opera di uno dei più grandi maestri del cinema contemporaneo, Terrence Malick, e cioè The New World, forse il film più importante uscito nella stagione che si sta per chiudere. In uno studio diacronico, Bisato ripercorre la breve, ma intensa e problematica filmografia di Malick presentandoci il suo cinema come luogo in cui l’uomo sperimenta un costante punto di non ritorno, in cui cioè le contingenze economiche e le sovrastrutture impediscono ai personaggi di vivere serenamente in armonia con ciò che li circonda. Tutto i percorso artistico di Malick è allora la messa in scena di un fallimento annunciato, che da La rabbia giovane, passando per La sottile linea rossa, fino all’ultimo film si apre sempre di più anche all’ignoto rappresentato dalla persistenza della natura. L’analisi che Bisato fa dei singoli film in maniera attenta e avvincente illustra questo percorso che non può che concludersi, appunto, nella palingenesi di The New World, in cui il cambio di prospettiva, la confusione dei punti di vista tra narrazione e visibile, l’incomunicabilità tra le civiltà presuppone, appunto, una perdita, quella della principessa Pocahontas, come elemento essenziale per la nascita di una nuova nazione e di un nuovo mondo.


Segnospeciale è a cura di Bruno De Marino: Quell’oscuro oggetto del design - cinema, scenografie, corpi d’arredo, e propone una serie di saggi sul significato che il design e gli oggetti scenici acquistano nel film. Si parte dalla lettura semiotica dello stesso De Marino che, citando Baudrillard, sostiene che "una delle condizioni necessarie che trasforma l’oggetto tout court in oggetto di consumo è il suo diventare segno, implicando un cambiamento nel rapporto umano" (p. 14). Nel cinema questa tendenza dell’oggetto a manifestarsi come segno si accentua enormemente, perché a sua volta esso è all’interno di un universo di segni; questo avviene trasversalmente in tutti i generi: dal comico (Keaton, Tati) al cinema d’autore contemporaneo (Cronenberg, Lynch). Ma se l’oggetto di uso quotidiano entra in un film perché la sua immagine è consolidata a livello collettivo, esiste un’altra categoria di oggetti specifici, scrive De Marino, "ovvero quei dispositivi, macchine, apparecchi creati appositamente per il film. Oggetti futuristici o futuribili che non esistono nella nostra realtà attuale, ma che potrebbero esistere un domani" (p. 15) perché esso "è concepito appositamente per il film con una specifica funzione al di là della sua effettiva funzionalità" (ibidem). L’autore passa poi alla descrizione del rapporto tra l’industria del design e quella cinematografica.

Il saggio di Paolo Cherchi Usai, Non aprite quella porta, ripercorre la storia della scenografia nel cinema delle origini, tra fondali dipinti, architetture immaginarie e oggetti che si animano: il décor del cinema muto con le straordinarie invenzioni di Méliès, Wiene, Pastrone, Griffith. Lo scritto di Roy Menarini, L’immagine oggetto, analizza il problema della riconoscibilità degli oggetti che appaiono sullo schermo e che entrano poi nel nostro immaginario iconico di spettatori-consumatori (oggetti socialmente determinati, proiettivi, concreti sono le tre categorie in cui essi possono essere ascritti). Seguono poi il personalissimo saggio Cose indescrivibili, quasi normali di Adelina Preziosi, che si concentra soprattutto sull’oggetto nel cinema di fantascienza e Delle cose erotiche ed eccessive, l’interessante scritto di Flavio De Bernardinis che analizza alcune sequenze della serie di 007, esemplari di come la celebre spy-story sia lo spazio privilegiato per comprendere come l’immagine "in sé e per sé sia l’oggetto erotico fondamentale" (p. 27).

In Gruppo di famiglia in un interno Bruno De Marino volge lo sguardo nello specifico al cinema italiano, su come cioè il design ha "vestito" il nostro cinema negli anni Sessanta - Settanta, "in bilico tra il benessere e il delirio esistenziale". In un ventennio importantissimo per l’industria del design, il cinema riflette il forte interesse per l’oggetto e per la cultura dell’arredo. Il design più spregiudicato e colorato viene utilizzato soprattutto nei film cosiddetti minori: di genere, commerciali, polizieschi, fantascientifici, surreali, anche se nel cinema d’autore, dall’oggetto-mentale di Antonioni all’oggetto-feticcio di Ferreri gli esempi sono diversi, ma comunque complementari di uno stesso discorso filmico. Tra i film più significativi del periodo Di Marino sceglie comunque Decima vittima di Petri e Lo scatenato di Indovina.

La rubrica Segno delle origini propone una riflessione di Paolo Cherchi Usai sul nuovo restauro che il Museo del Cinema di Torino ha realizzato della pellicola di Cabiria, il celebre film, capostipite del cinema epico, girato nel 1914 da Giovanni Pastrone, con le didascalie di Gabriele D’Annunzio. Cherchi Usai si complimenta con lo staff di Alberto Barbera, per la tempistica, per aver restaurato anche la versione sonorizzata del 1931 e per il sontuoso, bellissimo catalogo Cabiria & Cabiria, edito dalla Castoro. Qualche dubbio l’autore lo esprime sulla opportunità di alcune scelte: la nuova versione risulta più corta rispetto all’originale, la ricostruzione di alcuni fotogrammi non ha potuto garantire una qualità visiva continua, infatti il film passa nel "giro di pochi secondi dallo splendore di un’immagine tratta dal negativo originale […] alla mediocrità di un duplicato di quarta o sesta generazione, le prevedibili discordanze con la copia del 1931, gli azzardi filologici sulle didascalie. Probabilmente il restauro 2006 del Cabiria 1914 ha prodotto un’edizione di ricerca e non di spettacolo, ma il grande pubblico forse per questo continuerà a preferire la copia del 1931.




Marco Luceri


Segnocinema 139

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