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Comunicazioni sociali. Rivista di media, spettacolo e studi culturali
Sacrifici al femminile, Alcesti in scena da Euripide a Raboni

A cura di Maria Pia Pattoni e Roberta Carpani

anno XXVI, Nuova serie, Sezione Teatro, n. 3, settembre-dicembre 2004, euro 13, 50

Il numero del settembre-dicembre 2004 di «Comunicazioni sociali» raccoglie – come si legge nella premessa al fascicolo – i risultati di un progetto, Alcesti fra mito e scena, nato dalla collaborazione fra il Centro Teatrale Bresciano (CTB) e la Facoltà di Lettere dell'Università Cattolica di Brescia. Ad essere prevista dal progetto era una serie di incontri seminariali, affidati a specialisti di letteratura teatrale provenienti da varie sedi, che si sono svolti nel novembre e dicembre 2003 nei locali dell'Università, mentre, nello stesso periodo, presso il Teatro Santa Chiara, avevano luogo le prove di Alcesti o La recita dell'esilio, dramma di Giovanni Raboni andato in scena, per la regia di Cesare Lievi, il 7 gennaio 2004. La prima parte della rivista – preceduta da due contributi firmati  rispettivamente da Maria Pia Pattoni e Roberta Carpani - comprende la trascrizione delle dieci lezioni contemplate dal seminario (tenute, fra gli altri, da Davide Susanetti dell'Università di Padova, Glenn W. Most della Scuola Normale Superiore di Pisa, Giuseppe Langella dell'Università Cattolica di Milano e Franco Perrelli dell'Università di Torino) e relative alle rivisitazioni teatrali più significative del mito di Alcesti. A chiudere questa prima sezione è la relazione – volta a illustrare la genesi del suo dramma - che Giovanni Raboni ha proposto, il 12 dicembre 2003, nell'Aula Magna dell'Università Cattolica di Brescia. Dedicata, invece, all'aspetto più propriamente testuale è la seconda parte del volume che ospita le Alcesti di due drammaturghi tedeschi, Christoph Martin Wieland e Hugo von Hofmannsthal.

A metà strada fra la "tragedia di perdita" e la "commedia di restituzione" (non a caso «inserita dallo stesso Euripide – come sottolinea Glenn W. Most - alla fine di una trilogia tragica, ovverosia nella posizione tradizionalmente occupata dal dramma satiresco» e perciò definita da Davide Susanetti "dramma prosatiresco"), l'Alcesti di Euripide non ha esercitato sulla letteratura occidentale un'influenza pari, per esempio, a un'opera come Medea.

Nel giorno delle sue nozze, Admeto si dimentica di offrire un sacrificio ad Artemide. Irata, la dea promette di vendicarsi condannandolo a prematura morte. Avrà salva la vita solo se qualcuno accetterà, nel giorno fatale, di sacrificarsi al suo posto. Non accettano né il vecchio padre, né la vecchia madre. Solo la giovane sposa, Alcesti. Passano alcuni anni e, giunta l'ora indicata, dopo aver pianto sul letto nuziale e aver chiesto al marito – per il bene dei figli - di non risposarsi, Alcesti muore. Durante i solenni funerali, inaspettato, arriva Eracle. Per onorare il culto dell'ospitalità, Admeto lo accoglie senza rivelargli la vera identità della defunta. Indispettito, dopo poco tempo, dall'ubriachezza molesta e dagli schiamazzi di Eracle, un servo lo informa del grave lutto che si è appena abbattuto sulla casa. Smaltita in breve la sbronza, Eracle scende negli Inferi e riporta in vita  Alcesti. La conduce al marito velata. Dopo aver messo, con successo, alla prova la fedeltà di Admeto alla memoria della moglie, Eracle può presiedere alla rediviva unione dei due coniugi.

Solo alla prova del palcoscenico, la vicenda raccontata da Euripide ha sempre mostrato il proprio campionario di ambiguità e contraddizioni: Alcesti è la moglie perfetta e l'unica moglie perfetta è dunque una moglie morta; Admeto cerca in ogni modo di sopravvivere per poi ritrovarsi a non desiderare più di vivere; invitare Eracle ad entrare nel palazzo è, da parte di Admeto, un gravissimo errore senza il quale, tuttavia, Alcesti rimarrebbe prigioniera di Thanatos; tornata finalmente in vita, Alcesti – inquietante presenza muta - non dice al marito una sola parola (comunque, osserva Glenn W. Most, qualunque cosa Alcesti possa esclamare – e si parte dal «Ciao, tesoro mio, come sono contenta di essere tornata da te!» per arrivare all'«Idiota, era proprio da te che dovevo tornare?» - sarebbe difficile da rendere drammaticamente). 

Si tratta di rompicapi concettuali che, da Euripide a Raboni, passando dallo Shakespeare di Winter's Tale all'Eliot di Cocktail Party, si sono prestati, con risultati più o meno brillanti, a soluzioni di vario tipo. Euripide e poi Savinio (la cui Alcesti di Samuele ha «un finale 'capovolto' – si legge nell'Introduzione - autenticamente tragico») presentano la morte, scrive la Pattoni, come «rito spettacolarizzato in tutto il suo svolgimento»; l'Alcesti di Alvaro – secondo Langella – diventa invece  «l'emissaria di un ottimismo della speranza che, fragile ma tenace, non accetta di piegarsi al pessimismo della ragione»; il revisionismo nobilitante del Sei-Settecento tende a evitare di voler colpevolizzare qualsiasi personaggio e la generale bramosia sacrificale finisce col mortificare la nobiltà del gesto di Alcesti; Shakespeare ed Eliot offrono, dando vita a vere e proprie commedie didattiche, una versione cristiana del dramma euripideo; nella mitica e generazionale rilettura dell'Odin Teatret (Ferai, 1969) è, al contrario, Admetos che si trova a metà strada fra «il Cristo redentore» e «un carismatico agitatore anarchico» mentre nel metateatrale dramma di Raboni, accanto a due figure maschili (padre e figlio) che passano il tempo a litigare in modo farsesco, immersi nel limbo regressivo della loro fatalistica e deresponsabilizzante mancanza di volontà, compare di nuovo una Alcesti cui viene restituito «il posto d'onore – per citare ancora la Pattoni - che Euripide le aveva assegnato».

E, a proposito di "revisionismo nobilitante del Sei-Settecento", sono imperdibili nella seconda parte del volume le lettere – indirizzate a Friedrich Heinrich Jacobi e poi pubblicate sul «Der Deutsche Merkur» nel 1773 – in cui Wieland motiva, variamente infangando Euripide (reo di aver affiancato a un coro che dice «cose banalissime» un Admeto la cui vista ci disgusta) e incensando se stesso, le differenze fra la sua Alcesti e quella greca. Impedibili perché seguite dalla farsa aristofanesca di Goethe intitolata Dei, eroi e Wieland: «Vi sarebbe dovuto venire il dubbio – dice Admeto a Wieland - che un uomo nato quando la Grecia vinse Serse, un uomo che era amico di Socrate e le cui opere esercitarono sul proprio secolo un'influenza quale difficilmente avranno le Vostre, sarebbe stato in grado di evocare meglio di voi le ombre di Alcesti ed Admeto. Tutto ciò meritava un qualche prudente rispetto. Del quale certo tutto il Vostro saccente secolo di letterati non è più capace».    

Nella bellissima Alcesti (1907) di Rilke, citata infine da Raboni nella traduzione di Giaime Pintor, la morte della protagonista, sorta di metamorfosi e passaggio all'età adulta, avviene nel giorno stesso del matrimonio con Admeto. Il sacrificio della vita è il sacrificio della verginità. Così è descritta l'ultima visione che Admeto ha della promessa sposa prima che lasci la festa nuziale: «Ma una volta / ancora egli le vide il viso, indietro / rivolto, in un sorriso chiaro come / una speranza, una promessa: a lui / tornare adulta dalla cupa morte, / a lui vivente… / Allora egli le mani / premette sulla fronte, inginocchiato, / per non vedere più che quel sorriso».




Giulia Tellini


copertina

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