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Segnocinema
Rivista Cinematografica Bimestrale

Maggio - Giugno 2005, a. XXV, n. 133 € 6,00
Nella sezione "Saggi" incontriamo, ad aprire questo numero di «Segno cinema», due interventi, speculari e dalle conclusioni simmetricamente lontane, che si confrontano sul problema mosso dalla proliferazione dell’home video e in particolare del suo oggetto emblema, il dvd. «Segno cinema» si era già occupato di quest’argomento in numeri precedenti; se torna su esso è per sottolinearne l’importanza nel cinema contemporaneo.

Fin dalle sue origini lo spettacolo cinematografico ha coinciso con una proiezione pubblica a pagamento, mentre stiamo assistendo, soprattutto grazie alla creazione di nuovi e versatili supporti digitali, al trasferimento della sala, ormai ricostruibile tecnologicamente, in uno spazio privato. La conseguente modificazione delle forme della ricezione non può che ripercuotersi indirettamente anche sul testo e i suoi significati. Antonio Valenzi e Massimo di Nunzio affermano l’imprescindibilità della sala cinematografica, poiché rappresenta il luogo dove si consuma, attraverso un rito, l’arte di massa, ovvero il cinema; mentre criticano la pratica dell' home video, che, offrendo la possibilità allo spettatore di intervenire sul testo, priva la visione del valore artistico e declassa l’opera a copia senza valore, inautentica. Terrone interpreta l’avvocato del "dvdiavolo", distinguendo fra cinema come testo, «una formazione di compromesso fra dato estetico (le immagini, i suoni) e progetto logico (lo stile che configura immagini e suoni)», e cinema come evento, «risultato dell’incontro fra un dispositivo (il sistema proiettore/schermo) e una situazione (il pubblico in sala)». Il passaggio alla visione del dvd porta alla perdita dell'evento ma favorisce il testo, tramite l'aggiunta di alcuni interessanti elementi (lingue, sottotitoli, contenuti extra).

Lo speciale di questo numero è dedicato a una delle caratteristiche che si è soliti considerare propria dell’arte, e che per definizione sfugge alle determinazioni e classificazioni: la polisemia o, come preferisce chiamarla Orio Menoni, il curatore dell’approfondimento, il senso plurale.

Andrea Bellavita muove dal concetto di pluralità presente nella Histoire du cinéma di Godard – per il quale «non esiste una storia ma soltanto delle storie» - per svolgere una riflessione sui momenti in cui nella storia del cinema è prevalsa la ricerca del senso plurale. Se il racconto è la messa in prospettiva della realtà, la sua rottura rappresenta la moltiplicazione dei sensi possibili. Nella cinema tale condizione ha coinciso con l’ingresso dell’arte: l’impressionismo francese, il cinema dada, futurista e surrealista, fino all’espressionismo tedesco, movimenti accomunati dalla ricerca di nuove strade della significazione.

Luca Bandirali e Enrico Terrone propongono un’indagine approfondita delle categorie individuate come le cinque declinazioni possibili fra segno e significato in relazione al senso plurale: la polisemia, la pluralità, l’ambiguità, la sovrapposizione, la stratificazione. Orio Menoni analizza il senso plurale in un film, Swimming pool di François Ozon, scelto come campo di prova per testare le categorie analitiche formulate nell’introduzione allo speciale. La Donna che visse due volte (1958) rappresenta per Mauro Caron un modello caro a molti dei film «che si propongono una riflessione sul tempo, sul tempo cinematografico, sull’ambiguità dell’esperienza temporale»: Resnais, Brian De Palma, David Lynch o Wong Kar Way sono cineasti che lavorano col tempo inteso ancora una volta come morte al lavoro.

Fra i registi che sembrano più aver sondato le 'possibilità polisemiche' offerte dalla settima arte incontriamo sicuramente David Lynch. Per dirla con De Bernardinis: «il cinema di David Lynch è l’esatto corollario del senso plurale: tutti i sensi sono percorribili sulle strade perdute del suo cinema». Artista dello spaesamento e del perturbante, secondo l’accezione freudiana del termine, l’autore di Twin Peaks è forse il massimo interprete contemporaneo dell’ambiguità e della polisemia, che lo porta in alcuni casi fino alla mancanza di senso e al "giro a vuoto". Turrini indaga negli ultimi tre film (Lost Higway, A Straight Story, Mulholland Drive) la deriva di senso impressa dal regista attraverso l’uso del corpo dell’attore: corpo svuotato, letteralmente scarnificato, offerto allo scandalo della perdita dell’identità per divenire enigma, essere gettato (sguarnito e inconsapevole) nel mondo cui non appartiene, dov’è alieno.

Su Lynch e il suo cinema, non a caso, quindici critici della rivista si dilettano, in chiusura dello speciale, a rispondere alla domanda provocatoria ma in fondo solleticante, che più meno tutti, anche coloro che lo ammirano, si sono fatti dopo la visione di alcuni suoi film: ma “ci è” o “ci fa”?

Riccardo Castellacci


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