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Sandro Bernardi

ll paesaggio nel cinema italiano


Venezia, Marsilio, 2002, pp. 212, ill., euro 19,50
ISBN 88-317-7963-X

''L'unico vero viaggio, l'unico bagno di giovinezza sarebbe vedere l'universo con gli occhi di un altro''
Marcel Proust

Alcuni passi dal capitolo I (Il paesaggio come forma simbolica)

Paesaggio e cultura:

Consideriamo alcune immagini-tipo che hanno caratterizzato da sempre la nostra cultura. Ulisse che scruta l'orizzonte salato sulle rive dell'isola Ogigia - dai versi di Omero ai colori di Böcklin -, Petrarca che sale faticosamente le pendici erte del monte Ventoso, Iperione che lancia lo sguardo sul mare di Grecia, pensando: "L'ideale è ciò che è stato natura", le Indie che appaiono per la prima volta agli occhi di Cristoforo Colombo, descritte nelle pagine del suo diario; il sublime romantico e gli scenari di rovine che illuminarono Byron, Winckelmann o altri più modesti viaggiatori del "grand tour", i paesaggi esotici, lussureggiantí ma infestati di cannibali che appaiono ai due naufraghi di Typee, o l'isola deserta di Robinson Crusoe, il bianco irreale dei ghiacci su cui termina lo sguardo di Gordon Pym; la malinconia di Goethe seduto a meditare sulla vetta di una montagna, come appare nel famoso quadro di Tischbein, i viaggiatori di Friedrich sul Semmering o sulla riva del mare; il "guardo escluso", di Leopardi, con la siepe che fa immaginare l'infinito: ecco alcune immagini che immediate accorrono alla mente, quando si parla di paesaggio, per attestare, se ce ne fosse bisogno, che questa, e in particolare il motivo dell'uomo che guarda uno scenario naturale, è una delle forme simboliche della cultura occidentale. […]

[…] Questo certo basterebbe anche da solo a motivare uno studio del paesaggio nel cinema, se non ve ne fossero altri. La presenza di un osservatore, che è parte essenziale del paesaggio stesso, implica un riferimento all'atto del guardare che, se nella letteratura e nella pittura è ricorrente, nel cinema moderno e contemporaneo diventa essenziale, costitutivo del linguaggio stesso, fattore del senso ultimo e profondo a cui può essere ricondotta ogni opera cinematografica. Il paesaggio è un'esperienza, non un oggetto autonomo, e studiarlo significa studiare una cultura, il suo modo di costruirsi lo spazio, di rapportarsi a se stessa, quel rapporto fra il noto e l'ignoto che abitualmente chiamiamo "mondo".

Nel cinema, paesaggio significa non solo rapporto fra personaggio e spazio, fra uomo e mondo, ma anche rapporto fra diversi livelli di sguardo; c'è l'osservatore, che è un personaggio, e la cinepresa, che osserva l'osservatore. Si articola un gioco più complesso di punti di vista, e quando tale rapporto si propone come confronto fra due sguardi, fra due punti di vista, il paesaggio cinematografico diventa punto di partenza per una riflessione non solo sul cinema, ma implicitamente anche sull'atto del guardare inteso come atto conoscitivo. Dietro l'osservatore e dietro la cinepresa però un altro sguardo sta in agguato, nell'ombra, quello dello spettatore, che organizza e struttura il suo rapporto con il film secondo codici e modelli culturali sempre diversi, nello spazio e nel tempo: la ricezione delle opere cambia sempre. La stereoscopia di questi sguardi, la dislocazione reciproca di questi punti di vista non va trascurata; riflettere sul paesaggio significa anche riflettere su tre esperienze visive: lo sguardo dei personaggi dentro il film, lo sguardo del film, lo sguardo dello spettatore sul film. Sono tre differenti atti di cultura che vanno confrontati e distinti e che la critica o anche l'analisi del film a volte hanno confuso in un unico livello, attribuendo al testo ciò che appartiene spesso al personaggio o allo spettatore, al critico, all'analista, ruoli che solo in tempi più recenti sono stati studiati nella loro correlazione autonoma.

A questa molteplicità di sguardi va aggiunto ciò che caratterizza il cinema, la sua struttura tecnica. Il cinema è un sistema di rappresentazione che funziona nello stesso modo della mente umana, come diceva Münsterberg; ma si può aggiungere che è potenzialmente uno strumento per ripensare il mondo attraverso lo sguardo, poiché il cambiamento dei punti di vista (montaggio) e il loro slittamento (movimenti della cinepresa) incarnano tecnicamente il movimento dello sguardo e del pensiero, la possibilità di guardare una cosa da molti lati, di avvicinarsi e allontanarsi, di allontanarsi anche da se stessi e di guardarsi attraverso il rapporto fra le immagini. Questo movimento è il lavoro stesso della filosofia, una continua uscita da se stessi, dal proprio punto di vista, per studiarsi dall'esterno. Possiamo guardare o guardarci dal punto in cui poco fa stava un oggetto, oppure una parete, o una roccia deserta. Eppure, lo stupore di queste prime esperienze è stato ben presto dimenticato e il cinema è stato usato solo per raccontare storie, per intrattenere, per costruire spettacoli. Niente di male, anzi spesso il cinema pensa attraverso lo spettacolo, ne fa un sistema di rappresentazione di secondo, terzo o quarto livello, sfidando anche i pensieri più complessi.

E appunto questa stratificazione, questo complesso gioco dei punti di vista che mette in luce, nella nostra esperienza visiva, la dialettica di due movimenti simultanei: quello del vedere e quello del guardare. In un film di François Truffaut, Il ragazzo selvaggio (1970), il dottor Itard che ha in cura il piccolo Victor, trovato nella foresta, lo visita, si accorge che non reagisce alle voci umane e dice: "Ci sente senza ascoltarci, come guarda senza vedere. Noi gl'insegneremo ad ascoltare e a vedere" ("Il nous entend sans nous écouter, de même qu'il regarde sans voir. Nous lui apprendrons à écouter et à voir"). Questo è il compito del sapere, della cultura. La nostra capacità di vedere, infatti è strettamente collegata al nostro sapere, l'uomo vede ciò che sa, vede e nomina cose, luoghi o altri uomini. Il vedere è collegato al mondo dei fini, al valore d'uso delle cose. Ma c'è nell'esperienza visiva qualcos'altro, il guardare, ovvero la possibilità di spingersi oltre il sapere. Forse, il piccolo Victor vedeva qualcosa di meno e qualcosa di più del dottor Itard, così almeno sembra pensare Truffaut. L'invisibile è parte costituente e determinante del visibile, come ha mostrato Merleau-Ponty.

Il cinema, come le altre arti, quando è un'arte, ci insegna non solo a vedere, cosa che fa parte della nostra istruzione, ma a guardare e a vedere insieme, cioè a ricuperare quella ricchezza e apertura sui possibili che sta nel guardare, senza perdere le conoscenze altrettanto importanti che stanno nel vedere. Le scene di paesaggio, in cui un uomo guarda il mondo, diventano spesso esperienze-limite, soglie che ci trascinano al di là della cultura, del nostro modo di vedere il mondo, senza comunque abbandonare questo modo; c'invitano ad andare oltre noi stessi senza per questo scivolare in una perdita completa d'identità. In poche parole, potrebbe il paesaggio essere studiato come momento di confine? E che tipo di confine?

Ma perché il cinema italiano? Se in generale le scene di paesaggio sono momenti di riflessione, mi sembra che nel cinema italiano, o almeno in una parte di esso, quella che si appropria dell'eredità neorealista e la prosegue in una ricerca epistemologica, accada qualche cosa di più. Il paesaggio qui spesso diventa, come vedremo, un vero e proprio personaggio, un interlocutore, molte volte uno spietato antagonista nei confronti dei personaggi; non è più uno specchio dell'anima, non è più spazio dell'azione ma, al contrario, diventa spesso un luogo vasto, opaco, in cui l'azione e a volte anche i personaggi rischiano di perdersi; una soglia appunto in cui s'intravedono i limiti della cultura e della conoscenza. Nel rapporto personaggio-paesaggio il cinema italiano - questa parte del cinema italiano che analizzeremo - spesso mette in discussione, più o meno consapevolmente, la cultura, cioè tutto il sistema di codici dentro il quale ogni soggetto esiste e senza il quale non avrebbe identità. Insieme con il personaggio, anche la cinepresa scopre i limiti del proprio sapere, anch'essa si trova spesso di fronte all'ignoto, incontra le radici profonde, arcaiche del nostro sapere.

Com'è possibile questo? Il dopoguerra italiano è un periodo di grandi trasformazioni ma anche di grandi conservazioni che avvengono nel tessuto culturale e sociale, un periodo in cui, per usare una frase famosa 'tutto cambia e tutto rimane com'è'. La cultura industriale si afferma, ma viene a confrontarsi con i residui di culture antiche e persistenti. In questo confronto con il passato la moderna visione del mondo si scontra con quelle più remote e incontra in esse il suo limite, il suo confine. È qui che il gioco dei punti di vista messo in atti dal cinema diventa essenziale per illustrare la sovrapposizione, la coesistenza di immagini e di culture, la molteplicità di centri e di prospettive che esistono e agiscono simultaneamente. Questo rapporto fra vecchio e nuovo, fra mutamento e identità, fra movimento e immobilità, anticipatore per molti versi di un disagio presente, di conflitti e incertezze attuali, si può leggere in filigrana nel rapporto fra personaggi, cinepresa e paesaggio. Il cinema italiano, nella seconda metà del Novecento, è un cinema di grandi paesaggi.


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