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Il rito, l'esilio e la peste
Percorsi nel nuovo teatro napoletano. Manlio Santanelli, Annibale Ruccello, Enzo Moscato

Milano, Ubulibri, 2002, pp. 128, Euro 11,50
ISBN 887748219-2
Quando esce un bel libro si fa festa. Quando esce un libro inutile o dannoso, ci si resta male. E' dunque con dispiacere che scrivo questa nota per avvertire il lettore che in questo libro, purtroppo, ci sono troppi suggerimenti di "percorsi" sbagliati. Quando ti capitano tra le mani guide turistiche, mappe, itinerari non aggiornati o incompleti, occorre fare attenzione, altrimenti si finisce facilmente fuori strada.

Dispiace che ancora una volta ne vada di mezzo il teatro napoletano. Qua e là fanno la comparsa documenti, citazioni, intuizioni intelligenti per spiegare e capire tre dei più significativi drammaturghi del teatro napoletano tra i due secoli. Tra le cose utili : il pirandellismo di Eduardo e, in parte, dei suoi successori; l'influenza nella scrittura delle esperienze neoavanguardistiche degli anni Sessanta e Settanta; il lascito linguistico di Viviani. Ma poi l'utile e il pertinente lasciano il campo a divagazioni giornalistiche, osservazioni impressionistiche e superficiali rilievi linguistici. Più affermazioni di volontà critica che critica vera e propria.

Prevale un certo dogmatismo tematico. Una volta stabilito - sulla base di letture parziali dei testi - che il tema di Santanelli è il Rito, quello di Ruccello è l'Esilio e quello di Moscato la Peste, si procede a imporre quella tematica dominante a tutta la produzione dei tre autori. E' un espediente retorico tardo romantico, idealistico e letterario. Come se la scrittura scenica fosse davvero un fatto di poetiche. E i tre scrittori vengono semplificati e paralizzati.

La drammaturgia - anche quella napoletana - attraversa la mente e le malattie degli scrittori e poi si fabbrica faticosamente in mezzo ai compromessi del sistema teatrale, alle occasioni felici e sfortunate e, soprattutto, cammina sulle gambe degli attori. Di questi ultimi c'è poca traccia in questo libro (fa eccezione forse un giusto riconoscimento a Isa Danieli), come pochi segnali indicano gli autentici motori del mestiere di ciascuno dei tre. L'esercitazione espressionistica sulla lingua è forse preponderante in Moscato (ma il riferimento a Ronconi è del tutto fuori luogo), ma non in Santanelli in cui l'attenzione espressiva è funzionale a un uso quasi terapeutico del comico e del riso, in una sorta di seduta psicanalitica paradossale e permanente. In Ruccello l'esercizio scrittorio è rivolto essenzialmente alla ricerca di nuove "storie" e nuovi "racconti", sulla base di una vocazione e un talento storico e antropologico (l'accenno alla sua formazione culturale è troppo limitata). Inoltre, l'umorismo di Ruccello e Santanelli è un dato discriminante rispetto alla vocazione "neoromantica" di Moscato.

Non voglio qui impartire lezioni professorali. Al contrario mi sento di suggerire maglie interpretative più larghe che riconoscano, al di là della prevalente matrice autobiografica di questi scrittori (più in Moscato e meno negli altri due), confini più larghi alla loro officina drammaturgica, senza ingessature letterarie troppo vincolanti. Alla base ci può essere - e credo che l'autore ne sia un ottimo conoscitore - un censimento più attento di quello che è stata la scena materiale del teatro napoletano degli anni Settanta.

Purtroppo anche la bibliografia e la teatrografia sono lacunose o imprecise.

di Siro Ferrone


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