Comunicazioni Sociali
Rivista di media, spettacolo e studi culturali
A cura di Giovanna Zanlonghi
anno XXVI. Nuova serie. Sezione teatro, n. 2, maggio-agosto 2004, euro 13,50
ISSN 0392-8667
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Questo numero monografico, a cura di Giovanna Zanlonghi, è intitolato Tradizione e traduzioni. La cultura teatrale italiana fra classicismo e modernità. Si tratta di unuscita che preannuncia lavvio di «una serie di pubblicazioni dedicate alle vicende della drammaturgia, del teatro, della teatralità» del Settecento. Questo ‘primo numero si offre come un eccellente esordio del progetto ‘settecentesco per la ricchezza contenutistica dei contributi, tutti legati a una tematica particolarmente importante: le traduzioni teatrali, la loro ‘natura, il loro portato culturale, il loro inserirsi allinterno di un più ampio dibattito intellettuale come quello tra classicisti e modernisti. Ma più in generale il numero monografico ripercorre anche il dibattito legato al teatro italiano ed europeo del XVIII secolo, ‘dibattito che emerge, ricostruito da diversi punti di vista, nella totalità dei saggi qui presentati. I contributi, con lausilio della dotta e intensa, seppur sintetica, presentazione di Giovanna Zanlonghi, si rivelano tutti di alto valore, di ampio respiro storico e di preziosa utilità sia per una ricognizione attraverso alcune teoriche coinvolgenti teatro, pubblico e intellettuali del Settecento, sia per comprendere un fenomeno, quello delle traduzioni teatrali, che tanta importanza ha nel teatro italiano, sebbene da ottiche particolari che, tuttavia, non omettono mai una puntuale ricostruzione di un contesto storico-culturale.
Il saggio di Lucia Valcepina (Il teatro e il suo pubblico), particolarmente raffinato e colto, come è la cifra di questo numero di «Comunicazioni sociali», ricostruisce, attraverso unampia e approfondita analisi dello stato delle teoriche (che si offre anche come utile ‘compendio storico), un particolare aspetto del dibattito: quello legato alla ricezione, al rapporto tra una ‘offerta drammaturgico-spettacolare e un pubblico ricevente. Un rapporto foriero di intenzionali ricadute sulla creazione drammaturgica, sul modo di intenderla, sul modo di valutarla. Lautrice ricostruisce concetti che, nella «riflessione attorno al gusto», iniziano a prendere campo nella metà del secolo, come quello di sensiblerie una «condizione comune a tutti gli uomini a prescindere dalle distinzioni di classe». Il dibattito intorno al gusto, alle capacità più o meno ‘pure o mediate dello spettatore nei confronti dello spettacolo vengono ripercorse attraverso un generale punto di vista ‘riformatore che consiste in una sorta di rieducazione dello spettatore e di «valorizzazione e orientamento del processo ricettivo» che emerge, dopo lesigenza di un ampliamento del pubblico a più larghe fasce di spettatori, nella seconda metà del Settecento. Lautrice non dimentica tuttavia la realtà pratica del teatro, con le abitudini degli spettatori italiani, in larga parte da ‘rieducare per il comportamento tenuto. La seconda parte del saggio della Valcepina si incentra sulle problematiche relative alla ricezione, al ‘sentire, evidenziando quasi un continuo confronto e divergenza propositiva tra spinte ‘razionaliste e ‘classicistiche, nellopera ‘teorica di un abate settecentesco, uomo di dottrina, di cultura e di teatro, autore di tragedie: Antonio Conti. Dinteresse la sua individuazione nel gusto di un «sesto senso innato» che supera «lidea di una giudizio elitario», appannaggio di pochi ‘educati, e anticipa «alcune delle questioni preromantiche circa il valore dellimmaginazione e della fantasia». Ma questo concetto legato al gusto implica, da parte di Conti, una serie di ricadute su come e cosa debba essere la produzione drammaturgica, che elegge lo spettacolo tragico, in quanto capace di raccogliere in sé il maggior numero di stimoli, come oggetto di analisi e proposte. Antonio Conti usa uninteressante immagine, quella dei «fantasmi tragici» che «devono contenere in sé lidea universale e darne una realizzazione tale da permettere la comprensione e la partecipazione del pubblico». Questo non molto noto drammaturgo, contemporaneo di Alfieri, propone il riavvicinamento ideale della tragedia alla vita, in modo da accogliere lo spettatore «in un microcosmo interamente dominato: un teatro nazionale, veicolo di valori condivisi», una «rappresentazione tragica che contemperi ragione, fantasia e chiarezza e coinvolga il pubblico stimolandone lintelletto e la sensibilità con un ritratto della storia fatto di passioni, allinterno di unesplicita «ideologia democratico-repubblicana». Lo spettatore del teatro di Conti deve essere in ogni caso dotato di cultura, e in grado di recepire il messaggio di una romanitas attualizzata nelle tragedie. Il saggio, particolarmente ricco e intellettualmente concatenato in modo brillante e intenso, si pone come prezioso contributo per la storia della ricezione e delle riflessioni teoriche su di essa, delle sue connessioni con la drammaturgia. Offre inoltre un nuovo punto di vista sullopera di Antonio Conti.
Il saggio di Fabrizio Chirico (Traduzioni e riforma teatrale del XVIII secolo) si offre invece come valido contributo per una panoramica approfondita sia della diffusione delle traduzioni, sia delle diverse concezioni del tradurre, il tutto immerso in un più ampio contesto europeo che veniva allora formandosi. Si consolida e sviluppa il grande ‘mercato delle traduzioni dal francese e contemporaneamente, sempre allinterno di una querelles tra antiques e modernes, si creano delle ‘scuole di pensiero su cosa e come debbano essere le traduzioni di testi drammatici. Qui lautore passa in rassegna alcuni dei principali traduttori e trattatisti del secolo. Inoltre individua in un nucleo di tragedie francesi (da Rotrou a Corneille, da Racine a Crébillon e altri) il corpus delle traduzioni esistenti in Italia nel Settecento. Traduzioni che non di rado «rispondevano a unesigenza di rinnovamento delle scene, istanza propria dellaristocrazia italiana» come nel caso delle tragedie francesi tradotte dallAlbergati Capacelli e dal Paradisi e rappresentate privatamente per un pubblico aristocratico. Il modello tragico francese e la sua traduzione realizzarono «lo sviluppo di quel percorso che portò lItalia [del Settecento] a superare la subalternità intellettuale in un quadro di coesione europea». Un interessante capitolo del saggio di Fabrizio Chirico è dedicato alle traduzioni di Molière anche se «solo verso la fine del secolo assistiamo a una riabilitazione del commediografo francese». Lautore cala limportanza dell'autore di Tartuffe, in termini di rinnovamento sia della drammaturgia, sia dei caratteri dei personaggi, nel pieno del clima illuministico italiano in cui venivano formandosi, o erano già compiute, tre principali linee di tendenza: la riforma goldoniana, la commedia fantastica del Gozzi, la tragedia alfieriana. Accanto a Molière e alla sue traduzioni, cè anche unattenzione dei traduttori e dei drammaturghi verso altri modelli della scena francese come la comédie de moeurs o alcuni germi che porteranno al genere larmoyant e al dramma borghese. Fortuna scenica ebbero, nelle traduzioni del Settecento italiano, autori doltralpe quali Destouches, Nivelle de la Chaussée., ma anche Diderot e soprattutto Louis-Sébastien Mercier che porta Fabrizio Chirico a osservare che «la predominanza delle traduzioni di Mercier non può non far riflettere sul fatto che, verso la fine del secolo [XVIII] assistiamo alla piena diffusione, mediata proprio dalla cultura e dal teatro francese, del concetto illuminista dellarte come utile sociale, di una rinnovata visione dellesperienza artistica come strumento degli autori-filosofi per i loro scopi sociali, politici e di moralizzazione che passò, primadi giungere a piena affermazione, proprio attraverso la commedia lacrimosa e il romanzo sentimentale. Unetica nuova si è definitivamente affermata e, come stava avvenendo in Francia, anche in Italia doveva essere divulgata attraverso il mezzo più rapido, ovvero il teatro».
Il saggio successivo di Ettore Garioni (Le traduzioni dei tragici greci nel Settecento italiano, La ‘riscoperta di Euripide e la fortuna dell “Ecuba”) si pone come pilastro erudito e di ampie dimensioni dellintera raccolta di saggi di questo numero monografico di «Comunicazioni Sociali». Lautore infatti ripercorre la storia delle traduzioni dei tragici greci dal declino alla rinascita dello studio del greco in Italia durante il Settecento, con listituzione di sempre più numerose cattedre universitarie di lingue antiche, fenomeno collegato in parte anche all'inizio degli studi archeologici e agli scavi di Ercolano e Pompei. Un dato emerge: Euripide, lultimo dei grandi tragici, è quello più tradotto in Italia alla metà del secolo. Il saggio prosegue con un accorto riscontro degli strumenti bibliografici esistenti per stabilire una «geografia delle traduzioni dal teatro classico nel Settecento» per poi passare in rassegna più analitica le traduzioni settecentesche dei Eschilo, Sofocle ed Euripide. Di Eschilo fu tradotto soprattutto il Prometeo incatenato, che non ebbe particolare fortuna tra i traduttori italiani; lautore riporta anche estesamente della traduzione di Alfieri dei Persiani e di come il grande drammaturgo si accostò sia allo studio del greco, sia alla traduzione. Più numerose e importanti le traduzioni dellEdipo re di Sofocle, che contava già numerosi volgarizzamenti e rappresentazioni fin dal Rinascimento, a partire da quello del patrizio veneto Orsetto Giustiniano (ed. Venezia 1585). Lautore passa poi in rassegna le principali edizioni-traduzioni italiane del XVIII secolo rilevando come solo lElettra ottenne una qualche fortuna paragonabile allEdipo. Una vera e propria riscoperta settecentesca invece gode lopera di Euripide «al quale viene accordata una netta preferenza rispetto a Eschilo e Sofocle». Fortuna dovuta alle medesime ragioni che lo contraddistinguevano dagli altri tragici già nellantichità: «una più immediata comprensibilità dei problemi affrontati… nei suoi drammi, anche fuori dallambito ristretto della polis ateniese del V secolo». Già nei secoli XV e XVI Euripide incontra una progressiva affermazione nelle traduzioni latine (e lautore ne ripercorre le tappe e le edizioni), ma solo agli inizi del Seicento compaiono i volgarizzamenti in italiano. La prima tragedia tradotta in italiano nel XVIII secolo, e fortemente rimaneggiata, è LIfigenia in Tauride da Carlo Maria Maggi. Garioni poi si occupa della traduzione dellintera opera di Euripide da parte di Michelangelo Carmeli, ecclesiastico eruditissimo, conoscitore di lingue antiche ed orientali. La traduzione integrale delle opere di Euripide per mano del Carmeli fu pubblicata a Padova tra il 1743 e il 1753. Carmeli non si ferma alla traduzione dellopera del grande tragico greco ma arriva attraverso di essa a precise riflessioni: egli respinge «la validità del ‘lieto fine tipico delle tragedie cristiane – ma anche della Merope del Maffei – ed esalta il valore deterrente della pena». Ma particolare importanza ha nelle ‘statistica delle traduzioni da Eurpide lEcuba ed Ettore Garioni ne ripercorre attentamente i percorsi dedicandogli un intero capitolo. Personaggio particolarmente interessante anche per la formazione di un nucleo tragico nel repertorio da grande attrice. «Questo fascino per lEcuba era suscitato dallaffermazione della libertà delluomo che in essa si trova dallinizio alla fine. E, caso paradossale per un testo antico, sono proprio due donne a esprimerla: Ecuba, regina destituita di Troia, e sua figlia, Polissena, giovane principessa, prigioniera anchessa». Garioni poi fa una carrellata sulle principali traduzioni italiane del Settecento, da quella di Zaccaria Valaresso (Venezia 1710-14) a quella dellabate Mario Guarnacci (Firenze 1725), a quella di Antonio Straticò (Padova 1733, rappresentata dagli alunni del Collegio Cottunio), professore di greco allateneo di Padova, allEcuba di Michelangelo Carmeli (Padova 1743), a quella di Stefano Benedetto Pallavicini (Venezia 1744), a quella di Quirino Visconti (Roma 1765), fino a quella di Francesco Sonetti (Venezia 1790). Uno studio imponente e approfondito che mette in risalto un importante e interessante coppia di personaggi femminili.
Con lultimo saggio, di Maurizio Zuliani (La «Parafrasi dellAgamennone di Seneca» di Giorgio Maria Rapparini) ci spostiamo nella drammaturgia senechiana, che tanta importanza ebbe, sebbene con fortune alterne, fin dallEcerinis (1315) di Albertino Mussato (la prima tragedia di imitazione classica). Lo studio di Zuliani, oltre a dar conto di interessanti traduzioni settecentesche di Seneca, si concentra sulla traduzione-parafrasi, con testo a fronte, di Giorgio Maria Rapparini: Parafrasi dell'Agamennone di Seneca, pubblicata nel 1700. La natura di parafrasi lascia intendere che fosse probabilmente destinata in prima istanza alla sola lettura e non alla rappresentazione scenica. Lautore ricostruisce, ai fini di una migliore contestualizzazione, la biografia del dotto traduttore Rapparini. Particolare importanza è rappresentata dalla prefazione alla Parafrasi di Giovan Gioseffo Orsi, aristocratico dalle numerose frequentazioni nel mondo della cultura coeva e che afferma, nella sua prefazione, la superiorità dei Latini sui Greci, anche nel genere tragico. Il termine parafrasi usato dal Rapparini non è da intendere nel senso ‘comune, bensì si riferisce a una pratica di traduzione «intralinguistica», vale a dire una traduzione che avviene allinterno di una medesima lingua. Vuole indicare, in altri termini, che la versione si riserva, rispetto allipotesto, degli spazi di libertà. Lautore rileva «che lesercizio, o meglio loperazione culturale rappresentata dalla parafrasi, risulta particolarmente congeniale allestetica e alla poetica settecentesche», la pratica della parafrasi porta il parafraste alla aemulatio con lautore antico. Zuliani prosegue con un ricco raffronto tra testo originale di Seneca e ‘parafrasi di Rapparini rilevando che latteggiamento dellautore è libero: «talora lo parafrasa attenendosi alla scrupolosità, talora lo muta, lo amplia, lo compendia». Il saggio si conclude affermando che «agli inizi del Settecento, nasce, in sostanza, un nuovo classicismo, di cui la Parafrasi dellAgamennone di Seneca del Rapparini, per il rapporto dialettico che essa intrattiene con lipotesto, nei termini quintilianei di certamen e aemulatio, deve essere considerato pregevole prodotto».
Gianni Cicali
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