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Tonino Conte

L'amato bene


Torino, Einaudi, 2002, pp. 135, euro 12,50
ISBN 88-06-16116-4
Questo libro, scritto dal regista e autore teatrale Tonino Conte (nato a Napoli nel 1935, ma genovese dall'età di tre anni), è un romanzo, ma anche un'autobiografia, e perfino un pamphlet. Romanzo teatrale, secondo il modello reso famoso da Bulgakov, perché racconta la storia, dal 1960 al 1961, di una curiosa avventura teatrale cominciata negli ultimi mesi di vita della Borsa di Arlecchino, il mitico cabaret genovese di Trionfo-Luzzati-Poli-Bignardi & C., e conclusasi a Roma con l'andata in scena al Piccolo Eliseo de Lo strano caso del dottor Jekyll e del Sig. Hyde, riscritto, diretto e interpretato da Carmelo Bene: tra questi due estremi cronologici si dipana il viaggio del narratore e dei suoi compagni nella periferia del teatro in cerca di soldi e di fortuna; sulla strada incontrano uomini grandi e piccoli della scena e della provincia italiane. Spassosi per cattiveria e umorismo i bozzetti dedicati a Ivo Chiesa, "padrone" dello Stabile genovese per tutta la vita, ma anche gli appunti frammentari che dipingono Carmelo Bene, briccone cinico e egoista, ubriaco di wiskhy e di recitazione. Autobiografico è questo libro perché in esso Conte gioca molto bene con la memoria e trasforma la storia di due anni della sua vita in un fantasioso viaggio di formazione, osservato con il tono consuntivo e distaccato di chi ha molto vissuto e anche imparato. Ma le 135 pagine pagine danno anche molto spazio allo spirito aggressivo e polemico del teatrante e, soprattutto nella prima parte, lanciano improvvise imprecazioni contro Genova matrigna, contro i teatranti routiniers e avari di sè, contro gli affaristi del palcoscenico.

Dei tre aspetti del libro (che proprio per questa natura composita ben merita il titolo di romanzo) il curioso o lo storico del teatro apprezzeranno soprattutto il primo. Riuscite molte caricature d'epoca, brillanti alcune scene d'azione, ben ricostruita la vita del "retrobottega" teatrale, garbati gli aneddoti raccontati con piglio essenziale e vivace. Nelle pagine autobiografiche ogni tanto lo scrittore perde la fiducia in se stesso e, forse perché è convinto che un vero artista deve essere "scoglionato" (così detta la convenzione retorica delle avanguardie), sente il bisogno di dire e pensare qualcosa di "sgradevole". Ma per fare questo ci vuole talento e vera disperazione. Si sente allora che Conte si mette a copiare modelli (la lingua si fa stonata, i sarcasmi diventano freddure, la parola impropria) mentre farebbe bene ad accettarsi, senza vergogna, per quello che è, un narratore svelto, brillante, incline alla favola del quotidiano, felicemente piccolo-borghese.

Anche le pagine scritte con il piglio del polemico pamphletista sono forzate, troppo biliose per non scardinare l'assetto delle pagine narrative. Concetti tante volte ripetuti in conferenze stampa, in interviste e scritti d'occasione, niente aggiungono alla ferocia divertente e implicita che scaturisce da altre pagine meno "gridate" e più "rappresentative".

In fondo in questo squilibrio di scrittura è il segreto di un'intera cultura generazionale - quella che si affacciò al mondo del teatro all'inizio degli anni Sessanta (Carmelo Bene compreso): coltivò un'ambizione troppo alta, al di sopra delle possibilità presenti e largamente al di sotto dei lasciti delle avanguardie del passato. Molti di loro sognarono di essere Artaud senza rendersi conto che il talento è come la malattia (ti colpisce quando meno te lo aspetti) e il tempo una matrigna che non ascolta i tuoi lamenti.

di Siro Ferrone


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