«Annoiarsi è pericoloso, è letale, è come…è come se quei motociclisti da circo che corrono a mezza altezza sulle pareti nel giro della morte, all'improvviso spegnessero il motore…E precipitassero giù, nel vuoto…Nello sbadiglio»: la citazione è da Il Mistero della Donna senza Volto (2001), uno dei testi più riusciti di questa curiosa raccolta, e può sintetizzare il tema ricorrente di una drammaturgia continuamente sospesa (e divisa) tra esercizi comici assai riusciti e abissi tragicamente macabri.
Roberta Geri in ''Il Mistero della Donna senza Volto'',
regia di Andrea Mancini
Alberto Severi ha una notevole facilità nel costruire giochi di parole che poi si diverte a concatenare in un delirio che arriva a essere felicemente contagioso e quasi terapeutico: particolarmente efficace il monologo Porompompero (risale al 1988, ma è stato portato al successo in anni più recenti dallattore Andrea Buscemi) dove qui si procede per cascate di umorismo freddo e caldo fino allo svelamento di un suicidio nascosto dietro il velame comico. In tutti questi atti unici il divertimento è infatti un sipario nevrotico – cucito di calembours, aforismi, doppi sensi anche stereotipi – che cela e poi svela una più cruda, patologica, agghiacciante realtà. Si tratta di testi orchestrati secondo i tempi e i ritmi di un'abilità linguistica che trascina velocemente l'azione, salvo poi arrestarsi in un magma patologico fatto di violenza, pulsioni malsane, dolore. Le maschere dietro cui si nascondono i personaggi non sono mai sgradevoli, anzi invitano alla simpatia: costituiscono una sorta di teatro dell'intrattenimento prima della rivelazione e della successiva catastrofe. E quest'ultima, a sua volta, non potrebbe esistere senza il bilanciamento del prologo gradevole.
Alberto Severi
Dietro l'apparenza del gioco e dell'acrobazia verbale emergono progressivamente fattezze animalesche, figurazioni abnormi, incubi, come in Aracne e in Valzer, due testi esemplari di queste metamorfosi quasi allegoriche. Il ritmo che fa oscillare la parola fra immaginazione e realismo è scandito in maniera esemplare nel monologo, scritto a ridosso del Giubileo, intitolato Bruno Prof. Giordano, eretico (pubblicato su Drammaturgia - Quaderno 2002, Salerno Editrice, Roma, 2002, pp. 117-138). L'affabulazione è interrotta da continue allusioni al pubblico secondo la tecnica del teatro-nel-teatro, la tragedia del rogo datato 1660 si colora di allusioni alla cronaca nostra contemporanea, il dramma storico fa la parodia di se stesso con incursioni nella cronaca. Il monologo si sfalda da tutte le parti, perde il senso dell'orientamento cronologico, esce dal palcoscenico per entrare nel quotidiano, poi da qui si posiziona in parentesi che sono invettive sorridenti o malinconiche: la Roma dei Papi di ieri e di oggi, le alienazioni degli intellettuali, le mode dementi di massa, le convenzioni culturali d'élite. Giordano Bruno, professore o eretico, annaspa e ammette: «La storia non è un dramma, qualcosa che si sviluppa verso una soluzione, un traguardo, una meta. No. La storia è una tragicommedia circolare». Si torna così all'immagine di partenza, a quel cerchio acrobatico sospeso sul vuoto, che stordisce e spaventa.
Siro Ferrone
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