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Giuliana Muscio

Piccole Italie, grandi schermi
Scambi cinematografici tra Italia e Stati Uniti 1895-1945

Roma, Bulzoni, 2004, pp. 380, Euro 23,00
ISBN 88-8319-958-8

Si parla troppo (e a sproposito) del sentimento anti-americano oggi, dimenticando ciò che è stato ieri. Anche la storia del cinema può aiutare a ricostruirne gli antecedenti, a cominciare dal nazionalismo primonovecentesco che univa, a sorpresa, gli intellettuali di matrice crociana e quelli d’ispirazione marxista nel denigrare i film hollywoodiani. Quando negli anni Venti i cineasti americani vennero in Italia a girare film, non trovarono un’accoglienza particolarmente calorosa, e le loro pellicole non ottennero riconoscimento, anzi sui giornali se ne deridevano i grossolani errori storici: “americanata” è il termine con cui fin da quei tempi si definiva un prodotto commerciale e popolare. Il nazionalismo fascista non fece che accentuare le posizioni più intransigenti. Quanto al sentimento anti-italiano degli americani, i film hollywoodiani degli anni Dieci descrivono gli emigranti italiani come bruti subumani: negli Stati Uniti si amava l’Italia ma si detestava il suo popolo. Conclude Giuliana Muscio non senza un pizzico di ironia: «L’anti-americanismo nazionalista italiano è stato dimenticato ora che alcuni antiamericani attuali sono i nipoti di quei democratici che sognavano l’America ieri, mentre i filoamericani contemporanei sono quelli che disprezzavano allora gli americani».

Farsi largo in mezzo ai contorni sfrangiati di questa diffidenza, di questo «reciproco sentimento di ignorarsi» lungo il cinquantennio definito dall’arco cronologico di riferimento (1895-1945), è come attraversare un territorio inesplorato. Con minuziosa pazienza, l’autrice del saggio ricuce le fila di nomi, titoli, date ed eventi che dimostrano la lunga gestazione dei pregiudizi etnici e culturali responsabili del silenzio storiografico sull’argomento cruciale dell’incontro-scontro cinematografico fra Italia e Stati Uniti (non diversamente dalla ricognizione condotta da Guido Fink sulla tradizione ebraica nel cinema americano nel recente Non solo Woody Allen).    

Nell’affollato crocevia degli scambi, non deve sorprendere, compaiono pochi nomi di produttori e registi, mentre si rivela massiccia la presenza di attori e cantanti italiani nel cinema muto hollywoodiano. Giuliana Muscio definisce impressionante il vuoto storiografico che circonda la carriera americana di Cesare Gravina (attore per Stroheim) o di una cantante dal fascino irresistibile come Mimì Aguglia. Nel viaggio andata e ritorno di quest’indagine accuratissima, molti sono nomi si perdono e non sembrano particolarmente significativi, mentre altri scandiscono la trattazione come un leit motiv. Si potrebbe pensare a Rodolfo Valentino, l’emigrante italiano divenuto una celebrità assoluta dello star system hollywoodiano, invece alla fine il suo non risulta un caso particolarmente illuminante proprio perché Hollywood si premurò di oscurarne l’origine etnica, identificandolo sullo schermo con il tipo del latin lover ma non impiegandolo che tangenzialmente in ruoli di italiano («appena la sua carriera decolla interpreta l’italiano una sola volta, in un film minore quale Cobra»). L’italiano a Hollywood per eccellenza è un attore assai più sconosciuto, un caratterista impiegato in centinaia di piccole parti da italo-americano, Henry Armetta: la sua filmografia imponente testimonia la continuità di una rappresentazione stereotipa che attraversa trasversalmente circa trecento pellicole girate per lo più negli anni Trenta, a conclusione di una complessa fase di “assestamento” della costruzione dell’immagine dell’italiano nel cinema americano. 

L’indagine sulla rappresentazione dell’italiano nel cinema hollywoodiano costituisce  l’aspetto più interessante dell’intera ricerca. Negli anni Dieci «prevale la rappresentazione negativa (…), quella del meridionale dalle inclinazioni criminali, baffuto, armato dell’inevitabile coltello, con in testa una sorta di bandana, ubriaco o irascibile», incarnazione delle paure della borghesia americana. In seguito gli italiani, grazie ad alcune interpretazioni di star americane come Mary Pickford, nonostante vengano ancora connotati in modo fortemente negativo (sono tipi gelosi e vendicativi), iniziano ad essere mostrati con una certa curiosità. A metà degli anni Venti si verifica una svolta: per la prima volta attori italiani vengono impiegati in ruoli di italiani, anche perché nel frattempo l’immigrazione interna dei neri dal sud al nord degli Stati Uniti sposta l’asse della paura wasp dall’immigrato straniero all’afro-americano.

«Sul finire degli anni Venti può dirsi conclusa (…) l’aggregazione sullo schermo di quell’insieme di tratti che evocano l’italianità, per il pubblico planetario». Da questo momento in poi oscillerà costantemente fra due tipologie, il latin lover e il gangster: elemento di forte continuità, l’associazione con la musica (lo Scarface di Hawks fischietta mentre spara, ama l’opera e lo spettacolo, considerati "cultura alta" dal pubblico medio americano). Significativamente, Giuliana Muscio conclude il suo studio notando che ancora oggi lo stereotipo dell’italo-americano sembra uno dei più stabili nell’immaginario hollywoodiano: «cibo, mafia, passione e famiglia sono ancora ingredienti dominanti nel raccontare questa comunità». La fortuna del telefilm I Sopranos docet.


Cristina Jandelli


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