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Siro Ferrone

Parenti stretti


Pistoia, Libreria dell'Orso, 2004, pp. 176, euro 10,00
ISBN 88-7415-017-2
Le disavventure di un avvocato matrimonialista messo alle strette dalla prima ex-moglie, dalla seconda ex-moglie, dalla prima figlia, dalla seconda figlia, dalla madre, dall’amante della madre, da un’amante mancata, dalla segretaria e da se stesso. Ambientato nell’Italia degli anni Ottanta, tra Milano e Roma, è il resoconto di una diseducazione sentimentale. Ma anche un giallo senza assassini, con qualche complice, menzogne volute e involontarie, rivelazioni improvvise e indagini senza capo né coda. Di questa commedia-diario solo in apparenza leggera sul complesso di Abramo pubblichiamo qui un "assaggio": il primo e l'ottavo capitolo.



                                    CAPITOLO I

- Quello che vorrei farle capire, caro avvocato, è che io mi metto dalla parte dei figli. Vogliamo osservare la questione dal punto di vista dei figli?

- E osserviamola, - dissi, facendo sfoggio di tutta la santa pazienza.

Mi ero fatto crescere la barba fin dall’epoca del praticantato. Mi dava autorità, consentiva di ingannare l’attesa del mio intervento, stiracchiando, di qua e di là, i peli, grattandoli, frugandoli, fino a farne cadere alcuni, inconsapevolmente, sulle cartelle dattiloscritte. Giovanna, la mia bionda e pedante segretaria, ne trovava sempre un certo numero, come vecchi fiori appassiti negli inserti delle cause più antiche. Biondi, con qualche punta bianca, nessuno completamente incanutito, robusti come tutto il mio sistema pilifero, più simile ad una barriera corallina che a una pelliccia. Guardai il mio altezzoso cliente con severo candore.

- Tu mi devi capire – il ragionier Perazzini tracimava verso il tu quando raggiungeva la massima comprensione di sé – anche tu sei un padre. Nora, di figli, suoi voglio dire, ne ha solo uno, io ne ho quattro.

Aveva aperto la mano a ventaglio, ritrasse un dito:

- Tre per conto mio…

Distese di nuovo il dito:

- … e uno con Nora. Voglio dire, mi segui? che Beniamino ha tre fratelli dalla mia parte. Dalla parte di Nora, nessuno. E questo conta, non ti pare?

- Veda, - osai interromperlo, con un solenne gesto della mano che voleva imporre la calma e l’uso della terza persona – ad essere giusti, di figli suoi, e non di Nora, lei ne ha tre, non quattro.

- Non sottilizziamo avvocato, per favore – replicò sbrigativamente – non sottilizziamo. Ogni mio figlio ha tre fratelli, ogni suo figlio neanche uno. C’è una maggioranza schiacciante.

Avrei dovuto spiegargli che il nostro avversario era l’avvocato Fittipaldi, un matrimonialista di origine argentina, che si era guadagnato la fama di femminista solo perché aveva vinto, grazie a una cinica spregiudicatezza, tutte le cause in cui aveva difeso mogli abbandonate. Fittipaldi non era solo furbo, era anche latino-americano, e avrebbe replicato compiangendo l’emarginazione della coniuge ad opera del nucleo preponderante (cinque a due, stando alle parole del mio cliente, e per di più tutti maschi) e chiedendo, a tutela dei diritti morali della sua cliente, un ulteriore aumento degli alimenti. E l’avrebbe anche ottenuto, ma io non potevo ammetterlo davanti al mio cliente. Carezzai lungamente la barba:

- Veda, Perazzini, il problema non è meccanico. Dobbiamo entrare nella psicologia, un po’ contorta se vogliamo, ma pur sempre una psicologia, di sua moglie… Perché attaccare, quando si può comporre? Perché ferire, quando si può guarire?

Nascosi degnamente la mia paura di Fittipaldi. Aveva ragione mia madre quando mi diceva:

- Senza la barba no, ma con la barba assomigli a papà. Lui era più bello, d’accordo: belli si nasce, non si diventa. Però anche tu fai la tua figura. Con la barba, la sicurezza, anche se non ce l’hai, la lasci intendere. L’importante è impressionare, almeno un poco. Vedrai, vedrai, che la gente ti rispetterà.

Perazzini non si lasciò impressionare dalla mia barba. Voleva una soddisfazione morale:

- L’orario però, almeno quello, lo voglio. Nella prima sentenza si parla di uscita dalla scuola, per le visite al padre, il venerdì, e di riconsegna al lunedì, sempre alla scuola. Ci sono state liti e discussioni che non voglio si ripetano.

Anche Perazzini voleva la sua parte di rispetto. La scuola del figlio era stata sottoposta ad una dura prova. Sindacati autonomi e confederali ne avevano fatto il campo di battaglia di lotte fratricide. Scioperavano a turni alterni e sempre il venerdì "nelle due ultime ore del turno pomeridiano", come recitavano i manifesti che il ragioniere proponeva di allegare agli atti. La moglie del Perazzini, anche lei contabile, sosteneva che una volta accertato che il tempo di affidamento al padre era stato incrementato di quel tanto di cui era stato decurtato l’orario scolastico, e cioè di due ore, quello stesso tempo avrebbe dovuto essere da lei medesima recuperato, in un modo o nell’altro. Il Perazzini naturalmente si rifiutava e si appellava alla lettera della sentenza ("tutti i venerdì all’uscita dalla scuola") che non recava nessuna indicazione oraria.

- Non sono io che li rubo quei minuti, è il sindacato, anzi i sindacati che fanno e disfanno. Non posso lasciare mio figlio in mezzo a una strada, e mi rifiuto di contravvenire a quanto a suo tempo sentenziato. Uscita dalla scuola era, e uscita dalla scuola deve rimanere. Voglio vedere io se i sindacati proclamano uno sciopero selvaggio di ventiquattro ore, e salta tutta la scuola di venerdì. Che succede? Niente scuola, niente uscita dalla scuola, niente bambino? Nient’affatto! Io me lo prendo il giovedì, mio figlio! Non c’è sciopero che tenga. Troppo comodo nascondersi dietro ai sindacati.

Temevo quel punto. Già vedevo Fittipaldi approfittarne per accusare me e il mio cliente di opportunismo antisindacale, provocando una sdegnata reazione di tutte le organizzazioni di categoria e naturalmente un intervento del circolo socialista di cui Fittipaldi era presidente onorario. Ma sulla questione del venerdì Perazzini fu inflessibile. Ne andava della sua credibilità di padre. Mi piegai all’inevitabile prospettiva di un’arringa politicizzata in cui Fittipaldi avrebbe fatto sfoggio di numerosi accenti spagnoli. Perazzini era raggiante, io depresso. Per fortuna, appena in strada, un avvenimento destinato a modificare profondamente la mia vita mi riscosse.


 

                                    CAPITOLO VIII

La mattina seguente mi presentai al commissariato di quartiere. Lunga attesa davanti all’ufficio del maresciallo Lobue. Che invece era un piccolissimo napoletano, trasferito da Chivasso a Milano pochi giorni prima.

- Cinque volte, avvocato, cinque volte, qui, me l’hanno messa calibro 75.

E mi mostrò il sipario liso e abbondante dei suoi pantaloni dietro al quale era d’obbligo immaginare un sedere incallito dal dovere d’ufficio.

- Qui, al confronto, mi sembra di essere in pensione. Le pistole nel culo se le prendono questi ragazzi, - indicò il milite che sistemava la carta nella vecchia Olivetti nera e monumentale – e qualche volta anche le pistolettate. Io sovrintendo, e soprattutto interrogo.

Mi sembrò giunto il momento:

- Sono venuto proprio per questo.

- Per il culo o le pistolettate?

Risero insieme il maresciallo Lobue e il carabiniere Carbonetto. Non osai contraddirli e tacqui. Poi il maresciallo si fece serio. Nome e cognome. Età. Professione. Stato civile ("Divorziato. Due volte"). Nome e cognome delle due mogli. Figli ("Anna, di primo letto. Lorenza, di secondo. Recidivo").

- I precedenti penali me li dice dopo.

Il maresciallo non aveva più voglia di scherzare.

- Allora, precedenti penali?

- Nessuno. Forse sono stato schedato all’epoca del referendum sul divorzio. Sa, ci fu una carica della polizia. Niente di speciale. Certo, se tornassi indietro…

- Ah, allora anche lei è un pentito…

Lobue tornava a scherzare. Non ci stavo più.

- Voglio dire che non mi sposerei.

- Sospetti?

- Nessuno.

- Si è occupato d’altro? Difeso delinquenti, affari politici… Ha mai avuto minacce?

- Sono un matrimonialista monomaniaco.

- Maniaco?

- Voglio dire che tutta la mia attività è stata sempre impegnata in divorzi e separazioni. Non ho mai avuto tempo per altro.

- Potrebbe bastare. Sembrano faccende facili. E invece. Qualche padre, qualche madre esasperata. Ricatti…

- Vede, brigadiere…

- Maresciallo.

- Vede, maresciallo, noi avvocati in linea di principio non cerchiamo mai lo scontro. Il nostro compito è appianare i contrasti, non accentuarli. Io poi di carattere sono pacifico. Sono puntiglioso, è vero, ma ragionevole. E come me la maggior parte dei miei colleghi.

- Con le sue famiglie tutto regolare?

- Regolare, sì, come può essere regolare occuparsi di due ex-mogli e di due ex-figlie.

- Perché ex, le figlie.

- Figlie, volevo dire figlie. Figlie a tutti gli effetti.

- Altre donne, convivenze, relazioni? Altri figli?

- Niente da almeno un anno. E figli niente da tredici.

- Ma via, avvocato, un bell’uomo come lei. Con il suo lavoro, poi, di donne sole e piacenti ne deve avere conosciute. Si comincia con il lato professionale e si finisce per adagiarsi per così dire sui sentimenti. Un consiglio tira l’altro, e dai consigli si passa alle consolazioni. O mi sbaglio?

- Si sbaglia, maresciallo. Nel lavoro sono come il ginecologo. Non vedo nulla. Ogni cliente, uomo o donna, per me è una pratica. Anzi un colore. Ogni pratica è un fascicolo di colore diverso. E basta. E’ come se lei a forza di frequentare ladri, per lavoro voglio dire, gli venisse voglia di rubare.

Il maresciallo era incerto se scherzare o fare sul serio. Mi offrì una sigaretta, che naturalmente rifiutai; poi aggiunsi:

- Forse il paragone non calza.

- Non calza, avvocato, non calza. Se quel tipo che lei dice la sta pedinando da quindici giorni – cosa che noi accerteremo ipsofacto – se quel tipo la sta pedinando, una ragione deve pure esserci. E questa la deve sapere lei. Non io.

- E io invece non lo so. Lei sembra la mia segretaria.

- Segretaria-segretaria?

- Come segretaria-segretaria?

- No, dico, segretaria-segretaria?

Mi guardava dal sotto in su fisso negli occhi passando al di sopra dei suoi occhialini un po’ snob, cerchiati d’oro, un’arma impropria per un funzionario statale medio-basso anche se in borghese.

- Maresciallo, può darsi che io faccia cose di cui non mi rendo conto e che quindi intrattenga a mia insaputa rapporti sessuali con la mia segretaria. Ma le assicuro che non me ne sono ancora accorto. Per quanto posso sono una persona seria.

- Anche troppo, avvocato. I peggiori spostati oggi sono persone appostissimo. E’ finita l’epoca dei delinquenti capelloni.

Mi ero alzato, volevo andarmene. Ma cosa voleva? Accidenti a quando mi ero deciso a seguire i consigli di Giovanna.

- Ma no, stia, stia. Non volevo alludere.

- No, maresciallo, lei alludeva. Abbia pazienza.

- Mi lasci finire. Si metta nei miei panni. Lei è venuto qua a farmi l’elenco delle sue virtù. Padre esemplare di due figlie, ex-marito esemplare, o, se preferisce, divorziato esemplare; avvocato irreprensibile anche se divorzista; abortista pentito…

- Macché abortista, che c’entra?

- Lei non è abortista? Non fa niente. Però è perseguitato notte e giorno.

- Per ora solo di giorno.

- E intanto ha chiesto il visto per Israele. Perché lei vuole per forza andare in Israele? Paese caldo bellicoso. Lo sa, no?

- E’ mia moglie che mi vuole mandare, per accompagnare nostra figlia.

- Quale figlia, la prima o la seconda?

- La seconda, maresciallo. Ma lei lo sa. Lei sa tutto.

Sfogliava un fascicoletto che un secondo carabiniere gli aveva appena depositato sul tavolo. Il primo carabiniere continuava a registrare tutte le nostre parole sulla Olivetti nera e monumentale.

- Sembra che lei voglia scappare.

- E se anche fosse? Chi non ha voglia di andare via ogni tanto.

- Lei dunque vuole scappare perché si sente minacciato. O no?

- E’ una pura e semplice coincidenza. Ma scusi, se tutte queste cose lei le chiedesse al mio caro spione, non sarebbe più corretto?

- Corretto o non corretto, lo decido io. Gli spioni non parlano, caro avvocato. Gli spioni spiano e tacciono. A meno che non siano spioni, ma qualcos’altro.

Tacque a lungo il maresciallo, aspettando che fossi io a replicare. Non lo feci. Volevo vedere dove andava a parare.

- Lei lo sa cosa intendo per qualcos’altro? No? Un falso scopo, un uomo di paglia. Lei mi capisce? No? E allora glielo spiego io. Mettiamo che lei, dico lei ma potrebbe essere chiunque altro, abbia voglia di lasciare una volta per tutte il nostro paese e portarsi via, rapire diciamo la prole, una o tutte e due le figlie. Non si incazzi, avvocato, mi lasci finire. Rapire una o tutte e due le figlie perché, diciamo così, non si fida di sua moglie, perché non la tormenti, perché non sopporta di dividerla – o dividerle – magari con un altro uomo. Facciamo conto che le sue ex-signore abbiano uno, o più amanti, non occasionali, ma conviventi o semi. Lei cosa fa, se è arrivato al limite della pazienza e del sacrificio della sua patria potestà? Se le porta, o se la porta via. E per salvare le apparenze inventa un pedinatore, uno spione, un assassino che la minaccia. E così viene da noi, si crea un alibi, una giustificazione, una ragione di vita o di morte, per andarsene in Libano, in Marocco, in Medio Oriente. Così chiude con tutto, si tiene la figlia o le figlie e interrompe il pagamento degli alimenti. Che a quanto mi risulta sono piuttosto salati…

Un caso del genere non mi era mai capitato in vent’anni di carriera. Era comunque un suggerimento allettante.

- Ma, maresciallo, come ha fatto a inventarsi una storia del genere? Mi dica la verità, lei l’ha letta da qualche parte. E’ troppo ingegnosa.

- E’ vero, l’ho letta. Non è farina del mio sacco.

- Lo volevo ben dire. Dove l’ha letta?

- Qui.

Mi porse un foglio in carta da bollo, con timbro della questura e numero di protocollo. Riconobbi la firma di Beatrice. Era una denuncia datata luglio. Tre mesi prima di me, Beatrice aveva trovato la forza di presentarsi al maresciallo per fare la denuncia del mio tentativo di fuga e di rapimento. Non poteva inventarsi il paese verso cui sarei emigrato, ma tutto il resto era tale e quale lo aveva raccontato Lobue. Per questo aveva smesso di chiedermi i soldi per lo psicanalista. Aveva trovato nel maresciallo un sostituto più economico.

- Mia moglie soffre di allucinazioni.

- Anche per questo?

Mi allungò un altro fascicoletto, c’era scritto "Riservato". Tre cartelle manoscritte. Aveva raccontato al maresciallo le nostre verità più intime. E io dovetti confessare di essere stato reticente. Ammisi i fatti ma ne detti un’interpretazione diversa. Ormai la giornata era andata. Mi feci portare un cappuccino. Chiesi che il carabiniere Carbonetto uscisse e che il mio racconto non fosse verbalizzato.
red


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Alessandro Maria d'Errico legge
il primo capitolo
 
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