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Dario Tomasi

Lezioni di regia
Modelli e forme della messinscena cinematografica

Torino, Utet, 2004, pp. 403, euro 23,00
ISBN 88-7750-875-2

Nel corso dell'anno scolastico 1932-1933 Sergej M. Ejzenštein tenne un ciclo di lezioni all'Istituto Statale di Cinematografia di Mosca. Le lezioni furono trascritte e raccolte in un libro edito in Italia nel 1964 col titolo di Lezioni di regia. Fu questa una delle prime pubblicazioni ad occuparsi di cinema privilegiandone la «dimensione espressiva». Ovvero lo stile. Ed è proprio lo stile a interessare il nuovo libro di Dario Tomasi che, non a caso, «ruba» all'opera del regista sovietico l'ormai storico titolo. Come viene precisato nell'Introduzione, le «lezioni di regia» non sono però da attribuire a «chi questo libro ha scritto» ma a «quei cineasti che lungo la storia del cinema, in particolare dall'avvento del sonoro ai giorni nostri, hanno saputo davvero costruire quella che un tempo qualcuno chiamava "la settima arte"». «L'idea di fondo su cui il libro si struttura – scrive Dario Tomasi - è piuttosto semplice: individuare alcune situazioni drammatiche e narrative ricorrenti e cercare di comprendere come il cinema le ha messe in scena, quali sono i modelli che, per ognuna di esse, si sono dati come dominanti nel cinema classico, moderno e postmoderno, e quali invece le forme alternative».

A ognuna delle «situazioni» individuate – che sono otto - viene dedicato un intero capitolo che «ruba», a sua volta, il titolo a un noto film: la conversazione (La conversazione), lo scrivere lettere (Lettera da una sconosciuta), la sparatoria (La sparatoria), l'inseguimento (Speed), il bacio (Baciami stupido), l'atto sessuale (Facciamo l'amore), l'immagine che si riflette nello specchio (L'immagine allo specchio) e il sogno (Sogni). I capitoli, corredati da un indispensabile e ricco apparato "fotogrammatico", procedono a coppie: la prima è riservata alla parola, la seconda all'azione (e quindi al cinema di genere, dal western al poliziesco), la terza alla rappresentazione dell'amore (e quindi ancora al cinema di genere «ma al suo versante più sentimentale»), la quarta e ultima al problema della contaminazione fra la finzione e "ciò che si dà come reale" sia a livello narrativo sia a livello iconico (e quindi al famigerato "momento metacinematografico").

Adottando all'interno di ogni ambito tematico un approccio comparativo (Edward M. Forster docet), l'autore mette a confronto, nel primo capitolo, la conversazione "classica" in campo-controcampo fra Rick e Ilsa in Casablanca (1942) con quella fra Buck e lo sceriffo in Ombre rosse (1939); passa dunque a descrivere la confessione di Antoin Doinel in I quattrocento colpi (1959) celebre per il rifiuto del campo-controcampo e l'omissione dell’interlocutore; apre una parentesi felliniana in cui inserisce, fra l'altro, la conversazione «mancata» fra Marcello e Paolina nell'ultima sequenza di La dolce vita (1960) e quella «interiore» fra Guido e la moglie Luisa alla fine di 8 ˝ (1963) e conclude la "carrellata" soffermandosi sul lungo piano fisso impiegato da Mike Leigh nella scena dell'agnizione fra madre e figlia in Segreti e bugie (1996). Inevitabile poi che il capitolo Lettera da una sconosciuta sia quasi esclusivamente destinato a Truffaut e alle sue lettere o letture "audiovisualizzate" in Jules e Jim (1962), Fahrenheit 451 (1966) e soprattutto nel capolavoro, a parer mio, del regista francese: Le due inglesi (1971), dove la quarta protagonista – che assume spesso i connotati di antagonista - è la scrittura. Al centro di La sparatoria non può esservi altro che Brian De Palma col suo ironico e «postmoderno omaggio» (93 brevissime inquadrature montate a velocità rallentata), in Gli Intoccabili (1987), alla sequenza della scalinata di Odessa de La corazzata Potëmkin (1926) di Sergej M. Ejzenštein; come non può che gravitare intorno alla magistrale sequenza dell'inseguimento di Ombre rosse – caratterizzata prima da un registro narrativo d'azione e poi da uno drammatico, prima da inquadrature in esterni e poi in interni - il capitolo Speed.

Nelle pagine relative alle «forme baciate», Dario Tomasi si fa acuto esegeta del primo bacio fra Rossella e Rhett in Via col vento (1939), dei baci «sopra le righe» hitchcockiani – dal «bacio più lungo della storia del cinema» di Notorius (1946) al bacio «minaccioso» della Finestra sul cortile (1954) fino al «bacio ossessione» de La donna che visse due volte (1958) - e, infine, dei tre baci che, in Barry Lindon (1875) di Kubrick, segnalano il graduale cambiamento in atto nel protagonista, postillando le tre fasi della sua vita-carriera.

In Facciamo l'amore a dominare incondizionatamente sono invece le fantasie del Buńuel «avant-g(h)ard(e)» con brevi e necessarie incursioni anche nel soggettivismo onirico di L’Atalante (1934) di Vigo, nel realismo di Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci e nella desolata solitudine di I tre giorni del Condor (1975). Intrigante e sfuggente è l'ultima parte del volume che si addentra nei labirinti della visione – ed ecco la molteplicità d'usi cui lo specchio si presta (anche solo in M del 1931) – e in quelli dell'inconscio (dalla sequenza onirica "espressionista" di Il posto delle fragole del 1957 a quella pittorico-psicanalitica di Io ti salverò del 1945).

Scritto con un rigore tecnico e una accuratezza formale che riescono non solo a salvaguardare ma forse anche a esaltare il piacere della lettura, il libro - divertito e divertente, appassionato e appassionante – di Dario Tomasi si legge d'un fiato. Chi appartiene alla stessa razza di quelli che, negli anni Sessanta, si innamoravano di frasi come «una carrellata è una visione del mondo», è probabile che non si limiti a considerare con sufficienza periodi come: «quello di Omicidio a luci rosse è dunque soprattutto un bacio carico di sensualità, passione, desiderio ed erotismo dove il coinvolgimento totale dei due protagonisti è visivamente veicolato da un doppio scavalcamento di campo e da un vertiginoso ruotare della macchina da presa intorno a loro. Un altro bacio "sopra le righe" che nel suo carattere barocco e flamboyant sembra anticipare certi baci del cinema contemporaneo».




Giulia Tellini


copertina

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