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Prove di drammaturgia


Rivista semestrale, anno X, numero 1, luglio 2004, euro 3,58
ISSN 1592 6680
Questo numero di «Prove di Drammaturgia» - soffermandosi sulle varie tipologie di ''teatro narrazione'' sperimentate da vari artisti (Gabriele Vacis, Giorgio Gaber, Paolo Rossi, Marco Paolini, Laura Curino, Dario Fo, Marco Baliani, Mandiaye N'Diaye, Vanda Monaco Westerståhl e Pierpaolo Piludu) - intende fornire una esauriente mappa grazie alla quale sapersi orientare all'interno di quella ''dimensione'' recitativa ''allargata'' definita, da Gerardo Guccini e Claudio Meldolesi, nuova performance epica. Il primo contributo, firmato da Kassim Bayatly e intitolato Performance e narrazione allo specchio delle Mille e una notte individua due tradizionali modalità narrative arabe legate ad altrettante figure: quella della donna narratrice che, rivolgendosi ad una esigua cerchia di ascoltatori, li intrattiene con il racconto di «avventure amorose» e quella del cantastorie che, esibendosi in luoghi pubblici e servendosi tanto del linguaggio vocale quanto di quello gestuale, è specializzato nel genere epico-popolare. Analizzando alcune storie esemplari, Bayatly sottolinea l'importanza che l'attività performativa (dei musicisti, delle cantatrici e delle danzatrici) riveste per alcuni personaggi del capolavoro arabo. In Vocazioni, Gabriele Vacis ripercorre le tappe principali del suo percorso artistico iniziato con un provocatorio esempio di teatro-visione (Esercizi sulla tavola di Mendelev del 1984) e arrivato fino a Totem (1997) vale a dire ad un tipo di avanguardia popolar-pedagogica che, «nell'era del cinema e della tv», si affidi completamente alle potenzialità evocatrici di un testo drammaturgico analizzato come in una lezione.

Pier Giorgio Nosari, nel saggio I sentieri dei raccontatori di storie: ipotesi per una mappa del teatro di narrazione, offre una lucida visione diacronica e sincronica del ''teatro di narrazione'': ne sintetizza la breve storia (secondo lui lo ''sbarco'' della narrazione in teatro è avvenuto da una ventina di anni, ossia dopo la fase rivoluzionaria del Nuovo Teatro), conia un neologismo (quello di ''narrattore'') e propone, infine, una ipotetica suddivisione da applicare agli ''spettacoli di narrazione'' (la narrazione pura, la narrazione drammatizzata ed il dramma narrativo). Nell'affrontare la narrazione di una storia, impresa straniante per sua natura, il ''narrattore'', esibendone le strategie costruttive, fa teatro «nel momento stesso in cui ne smonta il tradizionale apparato». Nel caso della narrazione pura, il ''narrattore'' è un semplice raccontatore di storie come Dario Fo, Laura Curino e Giorgio Gaber. Marco Paolini, invece, in Il racconto del Vajont, prototipo di narrazione drammatizzata, dispone di alcuni oggetti di scena come una lavagna, un tavolino e una sveglia mentre Marco Baliani, in alcuni suoi spettacoli degli anni '90 che sono veri e propri drammi narrativi, dà vita ad una narrazione dove più attori interagiscono fra di loro.

Nel contributo Il teatro narrazione: fra ''scrittura oralizzante'' e oralità-che-si-fa-testo, Gerardo Guccini, basandosi su un approfondito studio del noto Vajont di Paolini (trasmesso da Raidue il 9 ottobre 1997 con enorme e inaspettato successo), riconosce, nel percorso creativo del ''teatro narrazione'', tre momenti distinti - di cui i primi due continuamente reversibili - che sono quello preparatorio della ''scrittura oralizzante'', quello performativo della ''oralità che si fa testo'' e infine quello del ''testo edito''. L'attore-narratore (battezzato da Nosari ''narrattore'') per Guerrieri è anche un autore. Diventa un brechtiano ''narrautorattore''. Beniamino Sidoti, invece, in Col testo alle spalle. Strategie interpretative nella lettura d'attore, riflette sulla centralità della voce distinguendo, come fa Vittorio Sermonti, quella di ''chi recita'', che ha il testo di fronte a sé, da quella di ''chi legge'' che lo ha alle proprie spalle. ''Chi recita'' è il fine dicitore, neutrale e perciò anti-teatrale per eccellenza, della scuola di Gassman e Albertazzi mentre ''chi legge'' è l'esecutore che, attento alla musicalità interna al testo e ad equilibrare ''presenza'' e ''perfezione'', cerca di portare il testo all'ascoltatore esigendone, in cambio, la partecipazione critica.

Dario Fo e la fabulazione epica è il titolo del contributo di Simone Soriani che esamina la modalità interpretativa di Dario Fo: non naturalistica ma epica, «capace cioè di alludere ed accennare piuttosto che descrivere in modo mimetico e realistico». Fo preferisce tuttavia dichiararsi erede di una serie di performers popolari (dai giullari medievali fino a Totò) piuttosto che di Brecht. Le sue fabulazioni epiche monologiche iniziano con una fase detta di ''soglia'' durante la quale l'autore-attore dialoga col pubblico per introdurlo con gradualità ad una narrazione caratterizzata da una straordinaria tendenza drammatica: la tecnica narrativa plurivocale «fondata su repentini spostamenti della focalizzazione» e sul continuo trapasso da un registro all'altro gli permette di dare voce ad una intera folla di persone mentre l'espediente del ''lazzo'' (accompagnato da un irrigidimento del corpo) gli consente di catalizzare l'attenzione dell'uditorio verso il proprio volto. L'autore-attore realizza così un tipo di teatro ''sincretico'' in cui «la parola e la pantomima, il gesto e l’azione» concorrono a veicolare il messaggio del destinatore al pubblico in sala.

Silvia Bottiroli, nel saggio Il narratore e i suoi personaggi. Un percorso attraverso il teatro di Marco Baliani, si propone di attraversare il teatro di Baliani esaminando il rapporto che questo "attautore" instaura con i suoi personaggi in Kolhaas (1990) tratto dal racconto di Kleist, in Corpo di Stato. Il delitto Moro: una generazione divisa (1998) e ne Lo straniero (2003) dal romanzo omonimo di Camus. Nel primo caso il narratore esterno Baliani parla di un personaggio in terza persona assecondando la forma epica del testo, nel secondo il raccontatore Baliani mescola eventi drammatici della storia collettiva a contrappuntistici micro-episodi autobiografici, nel terzo il narratore interno Baliani affronta un monologo teatrale in prima persona. La collaborazione inter-etnica instauratasi fra il Teatro delle Albe di Ravenna ed il senegalese Mandiaye N’Diaye – che è all'origine di spettacoli come Ruth, Romagna più uguale Africa (1988) e Lunga vita all'Albero (1990) - è, invece, presa in esame da Luigi Mastropaolo nel suo contributo Mandiaye N’Diaye e il teatro di narrazione: tecniche dell’oralità al servizio dello spettacolo. Chiamato a riportare in vita la figura del griot, contastorie tradizionale dei wolof (principale etnia del Senegal), Mandiaye, nel work in progress intitolato Griot Fulêr, si confronta con Luigi Dadina, uno dei maggiori esponenti del Teatro delle Albe, parallelamente impegnato nel tentare di ripristinare la tradizione del fulero di Romagna, contastorie che veniva ospitato dai contadini nel corso dei trebbi, veglie settimanali tipiche di una società rurale. Chiudono il numero un suggestivo contributo firmato dall'attrice bergmaniana Vanda Monaco Westerståhl (Sui suoni delle lingue in scena) che, recentemente, ha messo in scena Erotismo barocco – un’avventure con Giambattista Marino e una coinvolgente conversazione fra Fabio Acca e Pierpaolo Piludu, «anima portante» del Cada Die Teatro di Cagliari. Nel corso di uno studio (condotto nel 1982) a metà strada fra teatro e antropologia, Piludu ha registrato un gran numero di storie raccontate dai vecchi ''narratori'' del paese sardo Scano Montiferro e, forte di questa esperienza, ha poi ideato spettacoli come Famiglia Puddu, Sos Laribiancos e Cristolu

Giulia Tellini


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