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Dare avere, uomo donna, con crudeltà

di Gianni Poli
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Data di pubblicazione su web 30/03/2024  

Scritta nel 1889, la “tragicommedia”, che nell’autodefinizione fornisce un giudizio radicale sulla natura dei personaggi e delle loro esistenze tormentate, anticipa i temi e i complessi relazionali riversati dall’autore nei capolavori maturi. La composizione è precocemente tesa a rappresentare conflitti insanabili, in atto o latenti, di persone dalla sensibilità esasperata se non patologica. Soprattutto il rapporto fra uomo e donna è fonte di un disagio traumatico proiettato dallo scrittore nei protagonisti, qui una donna e i suoi due mariti.

La regista, Veronica Cruciani, osserva: «La struttura, a prima vista, potrebbe sembrare quella del triangolo borghese, invece siamo lontanissimi dal naturalismo. È un dramma della crudeltà, questo, dello scontro violento tra vittime; coglie le contraddizioni che sono dentro di noi, affronta la questione di chi in una relazione è forte e di chi è debole, nonché la paura dell’uomo di essere sfruttato dalla donna» (Nota di regia). Il sintomo della misoginia, inoltre, inclina alla sensibilità “espressionista”, come accadeva in un’interpretazione di Elio De Capitani del 1989, per la quale il testo era valutato materiale drammatico sperimentale, da sottoporsi a verifica nella scrittura scenica. Del resto, in momenti diversi, i due registi osservano concordi certe caratteristiche dell’opera, compreso il rapporto speculare fra le due personalità maschili qui poste a confronto.  


Un momento dello spettacolo
© Federico Pitto

La rappresentazione si svolge in sequenze ininterrotte e incalzanti. Subito, l’incontro di due uomini, amici in apparenza, di cui seguiamo la discussione sull’arte e sui problemi di coppia. Adolf è un giovane artista, sposato con la scrittrice Tekla, che ha aiutato ad affermarsi, alla quale ha dedicato la propria arte e che lo ha deluso, conquistando un’autonomia per lui dolorosa. Entrato in crisi, ha frattanto deviato dalla prima vocazione, passando dalla pittura alla scultura. Il più anziano, Gustav (Graziano Piazza), è intelligente, affabulatore invadente, di forte carisma, capace di imporsi sull’altro, fino a condizionarlo nei giudizi e nelle scelte e a convincerlo d’essere malato.

Le diverse età e situazioni sono incarnate da interpreti molto sensibili, interagenti con schietta empatia. Viola Graziosi incarna in Tekla una smaliziata e turbata sensualità, sia nell’incontro con il più giovane compagno, difronte al quale vuole sentirsi vincente, sia nel riavviare con l’ex marito ritrovato i giochi di seduzione che appaiono come interrotti o riattizzati per carenza affettiva. Il suo disagio s’esprime in gesti volti a saggiare la propria sicurezza, la forza proveniente da uno scambio comunque squilibrato e fragile, in costante pericolo. Rosario Lisma presta ad Adolf il volto mite e conciliante dell’innamorato che apprezza e si adatta, e che poi sfoga la rabbia segretamente accumulata nell’alternanza del dono di sé e dell’insoddisfatta accoglienza. «Quando t’innamori totalmente di qualcuno – nota ancora la regista – desideri essere importante ai suoi occhi, vorresti essere consumato da lui o lei, e non c’è niente di sbagliato in questo […]. Ma quando il desiderio rientra in ruoli di genere stereotipati, allora diventa pericoloso perché è influenzato dalla storia e dal potere» (Nota di regia).

Nel momento in cui la donna quasi assale l’amante per riconquistarlo dopo un’assenza, subisce la sua violenza repressa, rivalsa attizzata dal consigliere interessato, che si rivela il primo marito di Tekla. L’attenzione si sposta sulla statua velata al centro della stanza, frutto della nuova ispirazione dell’artista: scoperta, essa mostrerà un torso nudo, acefalo, segno dell’inconsistenza identitaria essenziale della persona assunta a modello. Lo scontro si fa via via più duro, finché Adolf, armato di coltello, minaccia la donna che pure riesce a domarlo con vezzi e promesse, forte del suo fascino. Poi Tekla incontra da sola Gustav, grave d’esperienza, vendicatore presuntuoso, cinico e velleitario, tornato per distruggere la nuova coppia: la sua tattica, una maschera di finta benevolenza. Si riaprono scambi perversi - fra desiderio e impotenza, rimpianti e progetti - che, nel ritorno di fiamma effimero, escludono un’autentica sincerità reciproca.


Un momento dello spettacolo
© Federico Pitto

Molto efficace la progressione promossa dalle luci, dai colori e dalle intensità cangianti (bagliore del bianco, del rosso e del verde) e di bell’effetto sinestetico. Si riproduce il meccanismo che genera la condizione di “creditore”, nella quale ogni partner si sente paradossalmente oppresso e vittima, indotto a esibire le proprie ferite, rilanciando le colpe nella pretesa d’un risarcimento. Momentaneamente sottratto alla tempesta passionale (con il mare sempre in evidenza, oltre i vetri d’un locale panoramico sghembo, traversato da note angosciose riecheggianti), Adolf assiste dall’esterno al conflitto, testimone del comune destino disperato dei protagonisti.

Nell’andamento dialogato fra i contendenti, s’inserisce a tratti l’appello diretto al pubblico a partecipare emotivamente al processo implicito per lasciarlo sconcertato da tanta e tale ferocia, impastata con sì falsa dolcezza. Lavoro di tre attori moderni, in un “dramma da camera” d’altri tempi, riscoperto e rinnovato; arricchito da semplici, ma convincenti elementi scenici, usati con abilità e rigore. Malgrado qualche ovvio rilievo retorico, la regista impronta alla sua creatività istintiva una significativa visione della messa in scena novecentesca nell’approfondire tensioni e ribellioni d’un drammaturgo del passato, reso prossimo e fraterno per la qualità e i vizi che rispecchiano i nostri. Vicenda mossa in stile realistico, evoluta in espressionismo teso e sarcastico e in surrealismo esaltato da suggestioni oniriche, da immagini simboliche d’una strana irrealtà, come il marmo femmineo che, infine soggetto a sgretolarsi quale sabbia, cattura gli spettatori per un’ora e mezzo e li libera in applausi, calorosi e insistenti.



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