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Quando il tenore è Clint Eastwood

di Paolo Patrizi
  La fanciulla del West
Data di pubblicazione su web 28/03/2024  

Pioniere nel portare uno spicchio d’Europa nella vita culturale degli States (poi arriveranno Stravinsky, Schönberg, Weill e tanti altri, compreso Thomas Mann), Puccini non vi giunse né da colonizzatore né da “condannato al paradiso”, per usare l’espressione con cui, un quarto di secolo dopo, s’indicheranno gli intellettuali e gli artisti che per motivi politici o razziali s’installarono oltreatlantico, accolti da un Nuovo Mondo che sapeva ben ripagarli pure finanziariamente. Si limitò a visitare l’America e riproporla con i propri occhi: come poi fece Vittorini in letteratura, o Sergio Leone nel cinema. Su quest’ultimo punto insiste Valentina Carrasco nel portare in scena a Torino La fanciulla del West, opera con cui Puccini avviò, musicalmente parlando, il suo “viaggio americano” (première a New York, 1910: quando, otto anni dopo, vi tornerà con il Trittico non sarà più per raccontare la “sua” America, ma per ricostruire la Senna del Tabarro e la Firenze dantesca dello Schicchi). Anzi, la matrice cinematografica viene sottolineata dalla regista argentina con tale didascalismo che l’ambientazione della Fanciulla – la California negli anni della febbre dell’oro – qui viene trasformata in un set dove, attorniato da tecnici zelanti e una segretaria di edizione un po’ isterica, si aggira un cineasta occhialuto e corpulento che sembra proprio il sosia dell’autore di Per un pugno di dollari

Nello spettacolo torinese, questa sorta di equazione tra Puccini e Leone (l’uno sdoganatore del western quando il genere, cinematograficamente parlando, era ancora agli incunaboli, l’altro suo rigeneratore “all’italiana” nel momento in cui il filone andava esaurendosi) è portata avanti con tale acribia da essere preannunciata prima ancora che l’opera cominci: le note che ascoltiamo all’alzarsi del sipario non sono quelle pucciniane, ma dell’armonica a bocca suonata in C’era una volta il West, i cui fotogrammi scorrono su un grande schermo – che nel corso dello spettacolo restituirà poi molti primi piani dei cantanti – campeggiante nella parte alta della scatola scenica disegnata da Carles Berga e Peter van Praet. D’altronde, sembra suggerire la Carrasco, chi è stato il più pucciniano dei musicisti cinematografici se non Ennio Morricone, autore delle colonne sonore di tutti i film di Leone? La storia, dunque, viene filmata lungo tutto il suo divenire: e dalla troupe cinematografica scaturisce una sorta di vicenda parallela, comprese divagazioni ora politicamente impegnate ora caricaturali (quando è di scena la squaw Wowkle viene alzato il cartello “Native lives matter”), che raffredda l’azione e rende un po’ cerebrale l’impianto.


Una scena dello spettacolo
© Daniele Ratti 

Tuttavia, al netto di questo, è proprio l’assunto cinematografico di base – in sé talmente ovvio da apparire scontato – a convincere solo in parte: del vero western Puccini conserva (o anticipa) la sensibilità coloristico-paesaggistica, il tema della ribellione e quello della natura, ma la mano e l’occhio sono tutt’altri. Resta fermo, infatti, che nelle opere pucciniane lo scenario geografico – dal Giappone di Butterfly alla Cina di Turandot – non diventa un reale soggetto drammaturgico e si trasforma in pura “chiave di lettura”, oltretutto in senso assai più trasfigurato che veristico. Puccini, insomma, ha bisogno di rileggere i luoghi piuttosto che raccontarli, la sua è una capacità d’osservazione formidabile ma tutt’altro che oggettiva; e il Far West da lui messo in musica è quello letto con gli occhi d’un benestante europeo, che ha appena fatto il proprio Viaggio Americano. Del realismo cinematografico non c’è nulla. 

Poi, certo, in un’opera così densa di personaggi e ricca di dettagli che nella visione a distanza imposta dal palcoscenico rischiano di perdersi, è un vantaggio poter contare su uno schermo: restituisce le espressioni stupefatte dei minatori, il volto sofferente di Johnson ferito, il mazzo di carte sostituito artatamente da Minnie durante la partita a poker (lode al lavoro di Gianluca Mamino, direttore della fotografia). Tuttavia, rimane il divario tra l’icasticità filmica della Carrasco e la drammaturgia musicale di Puccini, che l’ambiente western lo utilizza solo come esercizio di stile; e se a tale discrasia di fondo aggiungiamo alcune incongruenze (perché, in tale messinscena incanalata su binari cinematografici, quei cavalli di legno che suonano come un omaggio alla finzione teatrale?), alla fine l’unico tassello incondizionatamente apprezzabile dell’allestimento restano i costumi di Silvia Aymonino.


Una scena dello spettacolo
© Daniele Ratti 

In quest’opera dove è l’orchestra – intesa non solo come evocazione paesaggistica, ma personaggio collettivo – a raccontare, descrivere, dialogare perfino (nella partita a poker il canto cede al parlato e l’ansia, la tensione, la paura sono tutte nell’oboe e nei contrabbassi), il ruolo della bacchetta è risolutivo come non mai. La scarsa fortuna esecutiva della Fanciulla del West sta anche nello sparutissimo numero dei grandi direttori che l’hanno affrontata (Toscanini, De Sabata, Mitropoulos, Maazel, Mehta, Chailly, davvero pochi altri) e Francesco Ivan Ciampa non ha la pretesa di entrare in tal novero: tuttavia si dimostra narratore scorrevole, forse sensibile più al versante drammatico che a quello lirico – le voci talvolta risultano un po’ sovrastate dagli strumenti – ma consapevole nel dipanare un tessuto sinfonico-vocale, prima che operistico. L’orchestra del Teatro Regio risponde bene, così come puntuale è il coro, e pure i circoscritti involi melodici che Puccini concede vengono onorati con giusta flessibilità. Dispiace invece qualche taglio (ma in passato si sono date Fanciulle ben più sforbiciate), dovuto probabilmente a ragioni di budget: utilizzare lo stesso interprete per il baro Sid e l’indiano Billy ha imposto, nel primo atto, la soppressione di quest’ultimo personaggio. Ne ha scapitato quella dialettica tensione-distensione che è uno degli ingredienti primari della plasticità di quest’opera, nonché la possibilità di un più pieno utilizzo di quel grande schermo che serviva proprio a enfatizzare le tante “microstorie” incastonate all’interno della vicenda principale. 

Una certa frettolosità nel dare giusto rilievo a ciascun comprimario – Puccini li pennella ad arte tutti, dai minori ai minimi – è invece un limite del Ciampa concertatore. Peccato, perché Gustavo Castillo si dimostra voce baritonale interessante nel canto nostalgico di Wallace; Paolo Battaglia intuisce, nei panni dell’agente assicurativo Ashby, come imprimere un tocco di affettazione in quell’ambiente rude di minatori; Francesco Pittari restituisce tutta la premurosità e la discrezione di Nick; Tyler Zimmerman dà voce alla crisi isterica di Larkens senza bisogno di eccedere in sottolineature. Convince meno, per un personaggio generoso e violento qual è Sonora, l’utilizzo di un baritono buffo come il pur talentoso Filippo Morace (anche se certi suoi primi piani restano impagabili), mentre Eduardo Martinez figura meglio nelle vesti di Sid che in quelle di Billy. I ruoli di Bello e Harry – altro accorpamento – vengono qui entrambi sostenuti da Alessio Verna, ottimo artista che in tali fugaci apparizioni ha poco modo di figurare, così come non lascia grandi tracce Ksenia Chubunova nell’unico comprimariato femminile, quello dell’indiana Wowkle.


Una scena dello spettacolo
© Daniele Ratti 

Restano i tre protagonisti. Il bandito buono Johnson e lo sceriffo cattivo Rance trovano incarnazione piuttosto convenzionale da un lato nella tenorilità generosa e un po’ disordinata di Roberto Aronica, dall’altro nell’eccessiva truculenza – peraltro supportata da una salda timbratura – di Gabriele Viviani, imbrigliato in un cliché da baritono malvagio che non rende giustizia fino in fondo al personaggio. Di più sorvegliata civiltà vocale la Minnie di Jennifer Rowley: in affanno nelle puntature siderali – non a caso previste sulle parole «stelle» e «cielo» – imposte dalla scrittura pucciniana, nonché talvolta schiacciata dall’orchestra quando la voce deve scendere, ma con tutte le carte in regola quanto a ritmo, intonazione, fraseggio (un’efficace sintesi di femminilità e ardimento). Insomma «fieramente verginale», come prescrive il libretto. Quasi una Brunilde uscita dalla penna di Puccini.



La fanciulla del West
Opera in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama



Un momento dello spettacolo
visto il 22 marzo 2024
al Teatro Regio di Torino
© Daniele Ratti


 
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