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La luce langue

di Paolo Patrizi
  Salome
Data di pubblicazione su web 20/03/2024  

Salome, nella traduzione musicale di Richard Strauss, è un personaggio inafferrabile: chiunque tenti di coglierne l’essenza, inevitabilmente la perde. È questo ciò che sembra voler trasmettere la regia approntata da Barrie Kosky, autore a Francoforte di una messinscena che approda ora in Italia grazie al Teatro dell’Opera di Roma. Archetipo di perversione necrofila e quintessenza di grovigli psicanalitici adolescenziali (Freud aveva appena mandato alle stampe i Tre saggi sulla teoria sessuale), apoteosi del decorativismo estetizzante fin de siècle con le antenne però rivolte al nascente espressionismo, Salome parrebbe un’opera incasellabile per categorie: ma Kosky spariglia la pruderie dei luoghi comuni (il confine tra amore e devianza è labilissimo, suggerisce implicitamente il suo spettacolo), scompagina ogni consolidata certezza stilistica (di kitsch qui non c’è traccia, semmai si riaffaccia quella componente parodistico-grottesca che, presente nel testo di Oscar Wilde, Strauss aveva poi sfumato) e si limita a lanciare segnali, che starà poi a ogni spettatore ricostruire in base alla propria sensibilità.

Una scatola scenica buia e vuota – a realizzarla è Katrin Lea Tag – diventa dunque la cornice per un dramma che eravamo abituati a veder saturo di colori e immagini. Tutti restano racchiusi nelle tenebre, comprese ovviamente quelle dell’inconscio, e a rendere di volta in volta visibili i personaggi c’è solo un semovente “occhio di bue” calibrato con millimetrico virtuosismo dal light designer Joachim Klein. In questo nulla disvelato a intermittenze da un cono di luce (quella luna di cui si parla fin dalle prime battute dell’opera e che qui, materializzandosi in unica fonte luminosa, diventa coprotagonista) agiscono Salome e Jochanaan, Erode e Erodiade, Narraboth e il paggio, mentre i comprimari restano mere voci avvolte dall’oscurità; ed è un percorso drammaturgico del tutto congruo per un’opera dove i personaggi spesso vengono visti – o uditi – dagli altri prima che arrivino in scena: Narraboth, nel dramma di Wilde, osserva da lontano Salome quando ancora non è apparsa agli spettatori, così come Salome inizialmente “vede” Jochanaan solo attraverso la sua voce. Soltanto in un secondo momento potrà scorgerlo fisicamente.


Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Certo, si tratta di un’operazione registica non indenne da azzardi: sono dietro l’angolo tanto un possibile compiacimento tecnico – tale oltranzistico andare per sottrazione rischia una sorta d’ipertrofia alla rovescia – quanto un’impaginazione non sempre intelligibile del racconto (il suicidio di Narraboth viene risolto attraverso il suo definitivo inghiottimento nell’oscurità). Kosky tali pericoli sa aggirarli, grazie a una visualità plastica (più che sui corpi, lavora sui dettagli che il cono di luce enfatizza: i volti cerei, il frullar di mani…) quasi mai in collisione con la musica. Fa eccezione l’innesto di un prologo a sipario inizialmente abbassato, prima dell’attacco orchestrale, che diffonde in platea rumori metallici simili a un battito d’ali (anticipazione del sinistro volatile che popola gli incubi di Erode?): una trovata che vanifica l’efficacia di quel sibilante clarinetto con cui si apre la partitura e che, per Strauss, doveva catapultare l’ascoltatore in medias res.

Quello stesso prologo ha però il vantaggio di mostrarci, mentre il sipario si alza e i suoni registrati continuano, la protagonista in una prima, inopinata apparizione. Circonfusa da un copricapo piumato in stile diva del muto (il cinema era agli albori quando Strauss componeva), Salome compare nel primo dei molti, differentissimi costumi – firmati anch’essi dalla Tag – che indosserà nel corso dell’opera, atti a riassumere la sua natura tanto più cangiante quanto più ineffabile. Sono, in fondo, gli ideali succedanei di quei sette veli che non vedremo, giacché una regia come quella di Kosky del momento oleografico delle danze non sa cosa farsene; eppure è proprio la danza dei sette veli uno dei passaggi più memorabili dello spettacolo: risolta in un momento solipsistico allucinato e masturbatorio, con la protagonista seduta a gambe spalancate – una sconcia bambola rotta – che estrae dal proprio sesso quell’oggetto di desiderio che erano i capelli di Jochanaan, trasformati in un’interminabile matassa di ciocche mostruosamente proliferanti mentre la musica continua.

Pure il modo con cui è realizzato l’epilogo risponde a quest’estetica solipstica e claustrofobica: la testa di Jochanaan viene servita a Salome non su un bacile d’argento, ma fatta pendere da un gancio di macelleria; e la principessina, anziché baciare quelle labbra senza vita, sceglierà una necrofilia e un’incorporazione ancor più assolute, calcando il capo mozzato sulla propria testa, come fosse un sanguinolento mascherone carnevalizio. Estremo colpo di coda di una regia che per tutti i cento minuti dello spettacolo ha arpeggiato con maestria sulle corde del grottesco più stridulo, compreso quello in chiave satirica: dall’affettata borghesizzazione di Erodiade a un Erode in camicia nera. Come a dire che dal tetrarca al gerarca il passo è breve.

Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Se Kosky ha potuto contare su un cast di cantanti che sono pure duttilissimi attori, all’apparenza non instaura una dialettica altrettanto fertile con il concertatore. Ma si tratta, appunto, d’impressione a prima vista. Giacché la direzione di Marc Albrecht – colori accesi, stacchi rapidi – soltanto a una lettura superficiale appare ossimorica rispetto allo spettacolo buio, e all’azione solo “di testa”, messi in atto dal regista. Nei fatti, invece, l’opulenza ritmico-timbrica della lettura di Albrecht è il miglior contraltare per una regia che, senza un vivido supporto musicale, poteva impantanarsi nella lugubre monotonia. Né appare calzante parlare di messinscena “innovativa” a fronte d’una direzione “tradizionale”: giacché se Albrecht cerca, e trova, i colori sgargianti della più succulenta tradizione (da Krauss e Karajan giù fino a Thielemann), lo fa all’interno di tempi meno estenuati e più mossi di quelli classici, in linea con uno Strauss meno decadente-tardoromantico e più consapevolmente novecentesco. Ma soprattutto – ed è ciò che più conta – lo fa con una maestria tecnica che galvanizza gli strumentisti. L’orchestra dell’Opera di Roma questa volta ha superato sé stessa, per bellezza e ricchezza di suono.

Analogamente, un soprano come Lise Lindstrom – bella donna con alcuni lustri di palcoscenico alle spalle, dunque lontana dall’adolescente concepita da Wilde – potrebbe risultare anagraficamente inverosimile: mentre è proprio la sua età distante dal personaggio a farne l’interprete ideale per la Salome metamorfica e indescrivibile voluta da Kosky. Impagabile scenicamente (formidabile il suo saltellare come una bambina viziata, o il trasformarsi in accanita pugilatrice contro la testa mozzata di Jochanaan), presenta invece qualche disomogeneità canora: non tutto l’arco dell’emissione è parimenti a fuoco, il registro medio-grave denuncia occasionali “buchi”. Tuttavia, qui sono proprio certe disarmonie vocali a definire il personaggio; e lo scavo straordinario che sa imprimere a ogni frase pareggia definitivamente il conto.


Una scena dello spettacolo
© Fabrizio Sansoni

Il baritono Nicholas Brownlee è uno Jochanaan solido per risonanza più che per timbro (un colore piuttosto chiaro, che tende a impoverirsi in quella bassa tessitura su cui spesso insiste il ruolo) e, di conseguenza, raffigura un profeta inflessibile, martellante, eppure consapevolmente votato alla sconfitta. I due tenori – John Daszak incarna Erode, mentre Joel Prieto si fa carico di Narraboth – sono ben differenziati, l’uno rifacendosi a una tenorilità caricaturale-espressionista che discende dal Mime wagneriano, l’altro sfoggiando un canto più “latino” e soavemente malinconico. Il paggio (qui un lobby boy cui la regia restituisce quell’attrazione verso Narraboth sulla quale Wilde insisteva, ma Strauss glissava) trova in Karina Kherunts un puntuale mezzosoprano en travesti, mentre le vestigia della veterana Katarina Dalayman non bastano a render giustizia alla vocalità di Erodiade. È però una cantante-attrice piena di sapore nel dar vita a una rancorosa e petulante sovrana in tailleur e, per come Kosky concepisce il personaggio, tanto basta.



Salome



cast cast & credits
 
trama trama


Un momento dello spettacolo
visto il 14 marzo 2024
al Teatro dell'Opera di Roma
© Fabrizio Sansoni

 
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