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Una gelida comicità

di Paolo Patrizi
  Trittico ricomposto - Gianni Schicchi / L'heure espagnole
Data di pubblicazione su web 21/02/2024  

Seconda e intermedia puntata del progetto – spalmato su tre stagioni – Trittico ricomposto, con cui il Teatro dell’Opera di Roma intende solennizzare il centenario di Puccini, l’abbinamento tra Gianni Schicchi e il Ravel dell’Heure espagnole appare più scontato, e sulla distanza meno calzante, di quello dell’anno scorso, che al Tabarro abbinava il Bartók del Castello del principe Barbablù. In attesa di tirare le somme definitive solo dopo il terzo appuntamento, che farà dialogare Suor Angelica con Il prigioniero di Dallapiccola, qualche considerazione si può già trarre.

La prima – più banale, ma anche più immediata – è che una simile operazione risulta troppo diluita nel tempo: perché i tre dittici in cui viene scorporato il Trittico pucciniano esternino con chiarezza le reciproche interferenze, e con esse la loro densità semantica, era preferibile che il pubblico potesse vederli nella medesima stagione (l’attuale, coincidente con l’anno del centenario). A tanti mesi di distanza l’uno dall’altro, ogni spettacolo rischia di fare storia a sé. Vanificando, così, il senso del progetto stesso.

La seconda è che, proprio per garantire un collegamento drammaturgico a tale scomposizione/ricomposizione, non basta che il denominatore comune dei tre spettacoli sia la bacchetta (Michele Mariotti, direttore musicale del teatro romano, nonché ideatore di tutta l’operazione): era necessaria pure la stessa mano registica, per far cogliere con progressione e coerenza le relazioni occulte tra gli atti unici pucciniani e quelli di Ravel o Bartók, che – apparentemente – non presentano altre analogie al di là d’una contemporaneità al Puccini del Trittico. E, questo, non per rimarcare i meriti di Johannes Erath (che l’anno scorso mostrò talento tanto ermeneutico quanto demiurgico nell’anatomizzare il filo rosso Tabarro-Barbablù e nel creare quasi dal nulla un’osmosi tra le due opere), né per svilire il lavoro fatto ora da Ersan Mondtag sul rapporto tra lo Schicchi e Ravel: ma passare da un regista fedele all’estetica degli spazi mentali avulsi da addentellati realistici (Erath) a uno violentemente espressionista e sensibile alla musa del videomaker prima ancora che dell’uomo di teatro (Mondtag) rende improbabile un “ragionamento” unitario sui transiti fra Puccini e i suoi coevi europei.

Un momento di Gianni Schicci  ©Fabrizio Sansoni
Un momento di Gianni Schicchi 
©Fabrizio Sansoni

Autore anche delle scene, Mondtag trova proprio nella scenografia il collante tra quell’efferato teatro della crudeltà che è il comico-grottesco del Gianni Schicchi e il cerebrale esercizio di stile celato dietro la pochade nell’Heure espagnole. Un gigantesco quadrante di orologio (ma le lancette sono ferme…) campeggia infatti durante l’atto unico pucciniano, aprendo la strada a quelle pendole in cui, nella comédie raveliana, l’annoiata Concepción nasconde di volta in volta i propri amanti; mentre una gigantesca testa d’orco ricalcata dai mostri di Bomarzo domina il palcoscenico in entrambi i titoli, unico possibile viatico per un’umanità disumanizzata ora dalla feroce avidità (in Puccini) ora dal suo essersi ridotta, appunto, a un congegno a orologeria (in Ravel). Aleggia un’aura di finzione totale (nel Gianni Schicchi perfino da cartone animato, ma di tipo “nero”, stile I Simpson), d’altronde speculare alla Spagna tutta “di testa” immaginata da Ravel: i costumi di Johanna Stenzel hanno una figuratività memore del cinema di Tim Burton, discutibile ma non incongrua, mentre i video di Luis August Krawen (riservati solo a L’heure espagnole) convincono meno nella loro evocazione di un mondo post catastrofe globale. Come a dire che se la crudeltà umana, perfettamente riassunta dai personaggi dello Schicchi, ha portato all’apocalisse, ciò che segue – le geometrie artificiali di Concepción e la serialità dei suoi amanti – non è molto più rassicurante.

Da parte sua Mariotti, più che scandagliare le due partiture nelle loro analogie e nelle loro antinomie, le omogeneizza, optando per un pedale ritmico-coloristico rapido e snello, che ingentilisce fin troppo la tavolozza di Puccini e asciuga un poco il frastagliamento timbrico di Ravel. Per il resto, sonorità terse e contorni strumentali sempre ben definiti restano i pregi consolidati di questo direttore, ai quali va aggiunto un vigile sostegno del canto: e tuttavia proprio la “regia vocale” è questa volta l’aspetto più latitante nella concertazione di Mariotti, perché la sostanziale uniformità della sua lettura fa venir meno quel pennellare uno a uno i numerosi personaggi di contorno che, nello Schicchi, resta forse il più ineludibile dei desiderata pucciniani.

 ©Fabrizio Sansoni
Un momento di L'heure espagnole
©Fabrizio Sansoni

Resta comunque l’impressione di un casting poco accorto, a cominciare proprio dai comprimari, scelti tra giovani promettenti e ancora un po’ acerbi laddove Puccini pretenderebbe vecchie volpi di lungo corso artistico. A tale categoria dovrebbero appartenere almeno la Zita di Sonia Ganassi e il Simone di Nicola Ulivieri: ma l’una e l’altro hanno il sentore dell’ex protagonista passato al comprimariato per ragioni anagrafiche, più che l’allure del grande caratterista. Mentre della Nella di Valentina Gargano, della Ciesca di Ekaterina Buachidze, dell’Amantio di Nicolao di Mattia Rossi – tutti neousciti dalla Fabbrica young artist program dell’Opera di Roma – si apprezza la freschezza, restando però in attesa di vederne maturare la sapidità.

Neanche i protagonisti sono ideali, poiché Giovanni Sala è tenorino di volume contenuto, piuttosto in ombra quando arriva all’appuntamento con “Firenze è come un albero fiorito”. Carlo Lepore può certo contare su maggior personalità e più cospicua sonorità; ma ancorare il ruolo di Schicchi a una remota tradizione di bassi buffi – Baccaloni, Corena – anziché restituirlo nella sua autentica baritonalità non giova né al personaggio, né allo spettacolo (la lettura di Mondtag porta in altra direzione, e pure quella di Mariotti), né a Lepore stesso (che non è un baritono e si sente, perché se il volume è sempre ragguardevole la voce, salendo, perde in timbratura). Molto sensibile e chiaroscurata la sudafricana Vuvu Mpofu, sicuramente la sorpresa più lieta del cast: una Lauretta di pelle nera, forse anche per questo – non solo per la mancata dote – invisa ai familiari del fidanzato, e che rende icasticamente l’idea della figlia di un uomo della «gente nuova» (dunque favorevole ai matrimoni interrazziali) come Gianni Schicchi.

Sala e Ulivieri li ritroviamo nell’Heure espagnole, con esiti migliori rispetto al pannello precedente; mentre il tenore Ya-Chung Huang, che durante l’atto unico pucciniano era passato abbastanza inosservato nei panni di Gherardo, mostra una certa inadeguatezza alle prese con il più significativo ruolo dell’orologiaio. Il migliore del gruppo resta comunque il baritono Markus Werba: insieme lirico e robusto, misurato e disinvolto. Tutti pronti a gravitare attorno all’ape regina Concepción, affidata a una Karine Deshayes apprezzabile più per il nitore della vocalista che la spigliatezza della commediante.




Trittico ricomposto - Gianni Schicchi / L'heure espagnole

Gianni Schicchi
cast cast & credits
 
trama trama
L'heure espagnole
cast cast & credits
 
trama trama

Un momento di L'heure espagnole Fabrizio Sansoni
Un momento di L'heure espagnole
Visto al Teatro dell'Opera di Roma il 13 febbraio 2024
©Fabrizio Sansoni




 
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