Seconda e intermedia puntata del
progetto – spalmato su tre stagioni – Trittico ricomposto, con
cui il Teatro dellOpera di Roma intende solennizzare il centenario di Puccini,
labbinamento tra Gianni Schicchi e il Ravel dellHeure
espagnole appare più scontato, e sulla distanza meno calzante, di quello
dellanno scorso, che al Tabarro abbinava il Bartók del Castello
del principe Barbablù. In attesa di tirare le somme
definitive solo dopo il terzo appuntamento, che farà dialogare Suor Angelica
con Il prigioniero di Dallapiccola, qualche considerazione
si può già trarre.
La prima – più banale, ma anche
più immediata – è che una simile operazione risulta troppo diluita nel tempo:
perché i tre dittici in cui viene scorporato il Trittico pucciniano
esternino con chiarezza le reciproche interferenze, e con esse la loro densità
semantica, era preferibile che il pubblico potesse vederli nella medesima
stagione (lattuale, coincidente con lanno del centenario). A tanti mesi di
distanza luno dallaltro, ogni spettacolo rischia di fare storia a sé.
Vanificando, così, il senso del progetto stesso.
La seconda è che, proprio per
garantire un collegamento drammaturgico a tale scomposizione/ricomposizione, non
basta che il denominatore comune dei tre spettacoli sia la bacchetta (Michele
Mariotti, direttore musicale del teatro romano, nonché ideatore di tutta
loperazione): era necessaria pure la stessa mano registica, per far cogliere
con progressione e coerenza le relazioni occulte tra gli atti unici pucciniani
e quelli di Ravel o Bartók, che – apparentemente – non presentano altre
analogie al di là duna contemporaneità al Puccini del Trittico. E,
questo, non per rimarcare i meriti di Johannes Erath (che lanno
scorso mostrò talento tanto ermeneutico quanto demiurgico nellanatomizzare il filo
rosso Tabarro-Barbablù e nel creare quasi dal nulla unosmosi tra
le due opere), né per svilire il lavoro fatto ora da Ersan Mondtag
sul rapporto tra lo Schicchi e Ravel: ma passare da un regista fedele
allestetica degli spazi mentali avulsi da addentellati realistici (Erath) a
uno violentemente espressionista e sensibile alla musa del videomaker
prima ancora che delluomo di teatro (Mondtag) rende improbabile un
“ragionamento” unitario sui transiti fra Puccini e i suoi coevi europei.
Un momento di Gianni Schicchi ©Fabrizio Sansoni
Autore anche delle scene, Mondtag
trova proprio nella scenografia il collante tra quellefferato teatro della
crudeltà che è il comico-grottesco del Gianni Schicchi e il
cerebrale esercizio di stile celato dietro la pochade nellHeure espagnole.
Un gigantesco quadrante di orologio (ma le lancette sono ferme…) campeggia
infatti durante latto unico pucciniano, aprendo la strada a quelle pendole in
cui, nella comédie raveliana, lannoiata Concepción nasconde di volta in
volta i propri amanti; mentre una gigantesca testa dorco ricalcata dai mostri
di Bomarzo domina il palcoscenico in entrambi i titoli, unico possibile viatico
per unumanità disumanizzata ora dalla feroce avidità (in Puccini) ora dal suo
essersi ridotta, appunto, a un congegno a orologeria (in Ravel). Aleggia
unaura di finzione totale (nel Gianni Schicchi perfino da
cartone animato, ma di tipo “nero”, stile I Simpson), daltronde speculare alla
Spagna tutta “di testa” immaginata da Ravel: i costumi di Johanna Stenzel
hanno una figuratività memore del cinema di Tim Burton, discutibile
ma non incongrua, mentre i video di Luis August Krawen (riservati solo a
Lheure espagnole) convincono meno nella loro evocazione di un
mondo post catastrofe globale. Come a dire che se la crudeltà umana, perfettamente
riassunta dai personaggi dello Schicchi, ha portato allapocalisse, ciò
che segue – le geometrie artificiali di Concepción e la serialità dei suoi
amanti – non è molto più rassicurante.
Da parte sua Mariotti, più che
scandagliare le due partiture nelle loro analogie e nelle loro antinomie, le
omogeneizza, optando per un pedale ritmico-coloristico rapido e snello, che
ingentilisce fin troppo la tavolozza di Puccini e asciuga un poco il
frastagliamento timbrico di Ravel. Per il resto, sonorità terse e contorni
strumentali sempre ben definiti restano i pregi consolidati di questo
direttore, ai quali va aggiunto un vigile sostegno del canto: e tuttavia
proprio la “regia vocale” è questa volta laspetto più latitante nella
concertazione di Mariotti, perché la sostanziale uniformità della sua lettura
fa venir meno quel pennellare uno a uno i numerosi personaggi di contorno che, nello
Schicchi, resta forse il più ineludibile dei desiderata
pucciniani.
Un momento di L'heure espagnole©Fabrizio Sansoni
Resta comunque limpressione di
un casting poco accorto, a cominciare proprio dai comprimari, scelti tra
giovani promettenti e ancora un po acerbi laddove Puccini pretenderebbe
vecchie volpi di lungo corso artistico. A tale categoria dovrebbero appartenere
almeno la Zita di Sonia Ganassi e il Simone di Nicola Ulivieri:
ma luna e laltro hanno il sentore dellex protagonista passato al
comprimariato per ragioni anagrafiche, più che lallure del grande
caratterista. Mentre della Nella di Valentina Gargano, della
Ciesca di Ekaterina Buachidze, dellAmantio di Nicolao di Mattia
Rossi – tutti neousciti dalla Fabbrica young artist program
dellOpera di Roma – si apprezza la freschezza, restando però in attesa di
vederne maturare la sapidità.
Neanche i protagonisti sono
ideali, poiché Giovanni Sala è tenorino di volume contenuto,
piuttosto in ombra quando arriva allappuntamento con “Firenze è come un albero fiorito”. Carlo Lepore
può certo contare su maggior personalità e più cospicua sonorità; ma ancorare
il ruolo di Schicchi a una remota tradizione di bassi buffi – Baccaloni,
Corena – anziché restituirlo nella sua autentica baritonalità non giova
né al personaggio, né allo spettacolo (la lettura di Mondtag porta in altra
direzione, e pure quella di Mariotti), né a Lepore stesso (che non è un
baritono e si sente, perché se il volume è sempre ragguardevole la voce,
salendo, perde in timbratura). Molto sensibile e chiaroscurata la sudafricana Vuvu
Mpofu, sicuramente la sorpresa più lieta del cast: una Lauretta
di pelle nera, forse anche per questo – non solo per la mancata dote – invisa
ai familiari del fidanzato, e che rende icasticamente lidea della figlia di un
uomo della «gente nuova» (dunque favorevole ai matrimoni interrazziali) come Gianni
Schicchi.
Sala e Ulivieri li ritroviamo
nellHeure espagnole, con esiti migliori rispetto al pannello
precedente; mentre il tenore Ya-Chung Huang, che durante latto unico
pucciniano era passato abbastanza inosservato nei panni di Gherardo, mostra una
certa inadeguatezza alle prese con il più significativo ruolo dellorologiaio.
Il migliore del gruppo resta comunque il baritono Markus Werba: insieme
lirico e robusto, misurato e disinvolto. Tutti pronti a gravitare attorno
allape regina Concepción, affidata a una Karine Deshayes
apprezzabile più per il nitore della vocalista che la spigliatezza della
commediante.
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