La politica costituisce spesso
uno dei temi centrali nelle opere di Giuseppe
Verdi. Proprio queste opere non stanno vivendo un periodo felice alla
Scala. Sia il Don Carlo inaugurale,
sia Simon Boccanegra, lultima nuova
produzione, portano in scena storie che invitano a interrogarsi sul potere,
sulla sua conquista e il suo mantenimento, sul difficile rapporto tra ambizione
personale e bene comune, tra ragion di Stato e felicità individuale, tra potere
laico e religioso, tra Realpolitik e
il bisogno di tutelare gli affetti privati. In entrambi i casi gli spettacoli
hanno preferito evitare di farsi domande su questi argomenti.
Il Don Carlo di Lluís Pasqual
si nascondeva dietro un allestimento fastoso e inerte; il Simon Boccanegra di Daniele
Abbado (regia) fa lo stesso con scelte visive di tipo opposto. Qui gli
spazi sono vuoti, le pareti squadrate e grigie (scene dello stesso Abbado e di Angelo Linzalata), la collocazione
cronologica incerta: si vedono sullo sfondo gli alberi di velieri; alcuni dei
protagonisti indossano costumi astrattamente medievali, altri ottocenteschi; il
popolo veste abiti come nei quadri “socialisti” di Pellizza da Volpedo (costumi di Nanà Cecchi). Una scena dello spettacolo © Brescia e Amisano
Senza un lavoro significativo
sulla recitazione e sui movimenti delle masse, non bastano un paio di
riferimenti al Quarto stato per
costruire una riflessione sulle malvagità del mondo, o per rappresentare in
modo convincente il destino tragico di un leader politico, dei suoi avversari,
di un padre, di una figlia, di un paese lacerato da conflitti. Il tutto è così
statico e i pochi movimenti talmente casuali che lazione sulla scena diventa
irrilevante rispetto alla vicenda rappresentata, e si assiste di fatto (di
nuovo) a un concerto in costume. Ed è ironico (oltre che francamente triste)
che a essere così anestetizzati nei loro contenuti più scomodi siano proprio Simon Boccanegra e Don Carlo, due delle opere-chiave degli anni più chiaramente
politici della Scala allepoca della direzione di Claudio Abbado, in due spettacoli leggendari rispettivamente di Giorgio Strehler (Simon Boccanegra, 1971) e Luca
Ronconi (Don Carlo, 1977), e che
ciò si verifichi in un momento storico come quello presente – e proprio nei
giorni in cui anche al Festival di Sanremo di certi argomenti (almeno) si
parla.
Sul versante musicale le cose
sono per fortuna diverse. Lorenzo Viotti
(direttore) è alla sua prima prova verdiana alla Scala. Allinizio la sua è la
direzione di chi vuole mostrare di aver studiato bene la partitura: tempi
comodi e attenzione a ogni dettaglio. Poi si rilassa, e la lettura ne guadagna
in ampiezza di respiro e potenza espressiva. Viotti fa suonare lorchestra di
Verdi come quella di un poema sinfonico tardo-romantico, rivelando così tutta
larte del Verdi orchestratore, seguito a meraviglia dai complessi della Scala
– che peccato quelle sbavature delle trombe della banda sul palco! Una scena dello spettacolo © Brescia e Amisano
La direzione di Viotti ha avuto
effetti notevoli sulla prova di Luca
Salsi, che si rivela uno splendido Boccanegra, capace di tornire con
insolita finezza le frasi cantabili e di scolpire le parti declamate (che
piacevole sorpresa, e che differenza rispetto al marchese di Posa
dellinaugurazione!). Eleonora Buratto
ha una voce sontuosa e tutta la nobiltà di accento che il personaggio di
Amelia/Maria richiede. È in genere uninterprete appassionata e si resta col
desiderio di sapere quale sarebbe stata la sua resa con una regia definibile
come tale.
Roberto
De Candia è perfetto come Paolo Albiani. Charles Castronovo (Gabriele Adorno)
inizia in sordina, ma la sua è una prova in crescendo che letteralmente sboccia
nellaria e nel duetto con Amelia/Maria del secondo atto. Lelemento debole
della compagnia è il basso Ain Anger.
La sua voce dal timbro ruvido è sì potente, ma manca il legato che il ruolo di
Jacopo Fiesco pure richiede (alla prima ci sono state contestazioni). Come
sempre alla Scala molto bene tutti i comprimari. Ottimo il Coro, preparato da Alberto Malazzi.
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