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La Storia, il caso e una tragedia d’amore senza fine

di Gianni Poli
  Come gli uccelli
Data di pubblicazione su web 18/01/2024  

Il progetto del Gruppo Il Mulino di Amleto, iniziato nel 2022, evolve in rappresentazione compiuta e complessa, affascinante e sconvolgente, irrompendo nell’attualità con la sua poesia aspra fino all’insostenibile. In quattro lingue si esprimono gli attori di diverse provenienze, nell’intento di condividere ed esprimere una vicenda personale e corale dalle origini lontane e dai sentimenti universali. Quasi un incubo, fra storia e profezia, che prenda corpo dalla densità delle stratificazioni culturali e ambientali in personaggi unici, veri e fors’anche emblematici fino all’allegoria. Dal nucleo germinale dell’incontro amoroso fra due giovani (una studentessa araba, un ragazzo israeliano), la storia svolge destini contrastanti e alla radice di duri conflitti personali e familiari. La cronologia, dal 1967 al 2013, comprende l’intermezzo del massacro libanese di Sabra e Chatila (1982).

La durata dello spettacolo è maturata nella lunga gestazione, quale «strumento per entrare in un respiro narrativo emotivamente fortissimo» (Nota di regia), comprensivo di passato, presente e futuro, per cui alcuni personaggi richiedono d’essere doppiati nel ruolo giovanile. Alla forza delle pulsioni e passioni, risponde in scena un ampio controllo dei moventi della ricerca interiore sulle cause e gli effetti determinanti l’azione. Una scrittura inaudita per tensioni a volte al limite, gridate e incontenibili, intime al testo dell’autore libanese, assimilato dalla cultura francese. Ora il rapporto conflittuale fra Israele e Paesi arabi è attraversato con rigore storico e invenzione linguistica insolita, con il dominio del senso ritmico della drammatizzazione. La regia implicita nel testo emerge meglio dalla strutturazione critica e funzionale della versione italiana, resa con sensibilità dalla traduttrice-dramaturg (Monica Capuani) e dal disegno interpretativo che suscita una recitazione partecipata fino all’introspezione e con una coscienza vigile del riverbero sul pubblico. Una prova esente dal verismo documentario di maniera di tante produzioni di “scottante attualità”. Da grande fatica e slancio, sincerità e disponibilità a offrirsi al pubblico, nasce uno scambio autentico, una tensione al limite che punta alla sostanza comunicativa senza virtuosismi.

Un momento dello spettacolo © Giuseppe Distefano
Un momento dello spettacolo 
© Giuseppe Distefano

Sulla scena spoglia, il mezzo principale della rappresentazione consiste nella mobilità di un muro massiccio che, fatto ruotare dagli attori, scandisce le date della storia e delle interrelazioni più intime e misteriose dei protagonisti. Persone che s’incrociano e s’influenzano, sbagliano e soffrono, cercando l’identità e la propria realizzazione. Lo stesso muro rinvia battute e commenti, concomitanti con gli eventi. Al formarsi della giovane coppia, la storia sbocca nell’attentato – su un ponte fra Israele e Giordania – in cui resta vittima Eitan, di passaggio a Gerusalemme con l’amata Wahida. Nel tempo del coma riaffluisce il corso delle vicende della sua famiglia accorsa al suo capezzale. S’aprono allora episodi in flash-back, i primi contatti degli innamorati lontani da casa e la visita degli Zimmerman al figlio che vive a New York. La riunione di famiglia per conoscere la fidanzata rivela la situazione turbata, complicata da segreti e omissioni. In disparte, Wahida è pietra d’inciampo, oggetto di giudizio dei parenti che si scambiano accuse e sentenze di cui l’araba è ritenuta causa e responsabile. Quando si ritrovano in corsia a vegliare il ragazzo, quasi si ripete l’incontro americano.

A sussulti avanza la rivelazione necessaria e sospesa, con scene di dolore, rifiuto, compassione (stretta di mano fra Eitan e suo padre David) o con l’accoglienza della nonna Leah, benedicente la nascita del nipote. E ancora l’apparizione del “filosofo” Al Wazzân, figura di riferimento per la tesi che la studentessa prepara sulla sua opera. Vengono in luce verità fondamentali e terribili, finora taciute. Il seguito vede l’abbandono di Eitan da parte di Wahida che s’avvia a riappropriarsi delle sue origini contestate e aborrite, ma irrinunciabili. La separazione avviene per necessità, immersa in belle immagini che deviando dal desiderio e dalla logica, riaffermano violenza e crudeltà inevitabili. Il mare in risacca ribolle sullo sfondo per l’abbraccio dell’addio più struggente, per l’uomo equivalente alla morte. E suo padre muore davvero. Dopo una riconciliazione che riassume la sua fedeltà all’Israele dei patriarchi, David sul letto ch’era del figlio, sintetizza paternità e figliolanza inconciliabili, riconoscendosi erede della stirpe eternamente nemica. Al Wazzân conclude epicamente con un racconto di uccelli e di pesci che si confondono in una metamorfosi magica. Utopia alla quale Eitan sopravvive, ma incapace di sfruttarne la dimensione salvifica.

Un momento dello spettacolo © Giuseppe Distefano
Un momento dello spettacolo 
© Giuseppe Distefano

L’ammirazione per gli attori viene dal loro talento al servizio d’una regia efficace e per loro liberante. Federico Palumeri è Eitan ingenuo e sincero; pesa i pregiudizi che riconosce con spiritosa razionalità e gode dell’amore in schietta partecipazione al dono, sorpresa e incanto verso l’amata. Poi reagisce lucido e dolente al trauma di cui si sente frutto e vittima e si smarrisce nell’incomprensibile, ineluttabile destino. Lucrezia Forni è Wahida, sensibile all’entusiasmo del compagno al quale non chiede l’origine, per apprezzarlo nell’immediatezza dello scambio. Carattere spiccato e di scelte ardue e forti, capace di recuperare le radici, con una devozione che nella rinuncia si sublima. Tutte personalità dettagliate a fondo, spesso al bivio delle convenienze e delle passioni, in situazioni parentali non classificabili secondo manicheismo, per comporre equilibri rischiosi dei sentimenti e facoltà di giudizio.

I ruoli maggiori trovano interpreti maturi e come realmente usurati dall’assillo del reale. Così Leah di Irene Ivaldi insiste in rifiuto e distacco, prima di aprirsi a riconoscenza verso l’estraneità di Wahida. Aleksandar Čvjetković è il nonno Etgar, incappato nella paternità adottiva generatrice dell’innesto mostruoso, scarto genealogico inaccettabile. È lui, militare, a salvare il neonato e a denunciarlo suo all’anagrafe. Così è più grave l’“errore” per David (Elio D’Alessandro) e per la moglie Norah (Rebecca Rossetti) quando ne subiscono l’incombenza. David ne muore, dopo aver sofferto due volte, per la verità conosciuta e per la caduta delle certezze illusorie. È forse il maggiore testimone del paradosso che l’esistenza impone a chi ha creduto nel sogno ebraico, fra la Promessa e il suo traguardo escatologico, nel crogiolo di contraddizione che è Gerusalemme. Said Esserairi, ieratico catalizzatore di suggestioni, dà all’antico saggio voce mistica e profetica, riallacciandosi a visioni fantasiose e poetiche. Raffaele Musella presta l’età giovane a Etgar e incarna altre comparse. Barbara Mazzi interpreta Leah da giovane e la Soldatessa che interroga Wahida.

Sonorizzazione e musicalità di stridente, scomodo impatto; incastri visivi cinematografici e didascalie brechtiane completano l’effetto coinvolgente. Dilatazione di certi silenzi, più urgenti e laceranti delle grida spontanee, ritmano la partitura vocale, in un’opera forte e bella, da sentirsi come un classico del futuro e che serva a riaffermare il teatro quale luogo dove orrori e irrazionalità della Storia possano essere rappresentati e discussi.




Come gli uccelli
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Un momento dello spettacolo
Un momento dello spettacolo
© Giuseppe Distefano


 
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