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The Old Loach

di Giuseppe Mattia
  The Old Oak
Data di pubblicazione su web 13/01/2024  

In barba ai quasi ottantotto anni di età, il due volte Palma d’oro Ken Loach ha presentato in anteprima, durante la 76ª edizione del Festival di Cannes, The Old Oak. Il ventisettesimo lungometraggio dell’autore inglese segue di quattro anni l’uscita di Sorry We Missed You (2019), ennesimo risultato di una delle collaborazioni più fruttuose della storia del cinema, quella tra il regista e lo sceneggiatore Paul Laverty. I due ritornano nell’Inghilterra contemporanea per affrontare alcune delle tematiche a loro più care: dalle difficoltà legate al mondo del lavoro e all’integrazione fino ai tentativi di promuovere una diffusa solidarietà di “classe”. La coppia – la cui prima realizzazione comune risale a La canzone di Carla (Carla’s Song, 1996) – si propone qui di scuotere la coscienza degli spettatori attraverso una mirata denuncia politica che passa per la costruzione di personaggi tragici, incarnazioni viventi delle ingiustizie a cui assistono o a cui sono sottoposti, fra tradimenti, vendette, incomprensioni e sogni di rivalsa.



Una scena del film

2016. In un ex località mineraria situata nel nord-est dell’Inghilterra giunge un giorno un pullman con a bordo un nutrito gruppo di rifugiati siriani, in maggioranza donne e bambini. Fuori li attende l’insofferente popolazione del posto, la quale patisce ormai da anni l’assenza di lavoro e la sempre più stringente condizione di ristrettezze economiche, manifestando di fatto la propria irritazione con insulti e grida. Uno di essi, a un certo punto, manda in frantumi la Reflex di una giovane siriana appena arrivata, Yara (Ebla Mari), la quale stringerà amicizia con TJ Ballantyne (Dave Turner), proprietario dell’Old Oak, l’ultimo pub rimasto aperto in città. A simboleggiare l’iniziale stato di sconforto e abbandono della cittadina è la primissima inquadratura del locale, con la lettera «K» dell’insegna quasi completamente staccata dalla parete. L’ormai polverosa e negletta stanza sul retro pullula di fotografie che ripercorrono la storia recente del posto, dalle manifestazioni sindacali alla solidarietà tra i minatori. TJ decide però un giorno di rimetterla a nuovo, aggrappandosi al passato con uno sguardo al futuro proprio come fa il protagonista di Jimmy’s Hall (2014): l’idea è quella di istituirvi una mensa che fornisca cibo gratuito ai profughi ma anche agli abitanti costretti alla miseria. Lui e Yara rappresenteranno le rispettive comunità relegate ai margini, in crisi, le quali cercheranno a fatica un punto d’incontro e un’agognata solidarietà reciproca.



Una scena del film

The Old Oak è un film costellato di chiusure: dalle porte delle case agli atteggiamenti degli abitanti, amareggiati e inviperiti per una società sorda che viaggia a due velocità. Uno dei paesi più ricchi del globo sembra dimenticarsi degli ultimi, come accade anche nel pluripremiato I, Daniel Blake (2016). Il volto di Turner è invece un paesaggio segnato da una miriade di scelte sbagliate, da un figlio che ha smesso di parlargli, da una moglie spirata prematuramente e da un amato padre perito anni prima in miniera come tanti altri compaesani. Attorno a lui, gli autori del film costruiscono un apparato umano, forse leggermente manicheista, di individui con pulsioni fratricide, tutti condannati a una periferia inglese che si erge a periferia universale. Si aggiungano al contesto anche quelle convinzioni xenofobe che appartengono un po’ a chiunque, della serie “non sono razzista ma…”. La guerra tra poveri è ancora una volta centrale nella visione di Loach, come nel 1993 lo fu in Raining Stones, il cui titolo era debitore all’amaro proverbio inglese “quando piove sui poveri piovono pietre”. Oltre alle chiusure, il film è costantemente in dialogo con la fotografia, presente sin dai titoli di testa – con una serie di scatti in bianco e nero degli autoctoni inferociti per l’arrivo dei profughi – diventando in seguito centrale con il personaggio di Yara che, grazie al proprio apparecchio, riesce a filtrare la realtà e le orribili immagini a cui ha assistito nei campi di prigionia siriani.



Una scena del film

Le struggenti musiche di George Fenton, collaboratore sin da Ladybird Ladybird (1994), conferiscono talvolta al film un sapore mellifluo se si considerano, inoltre, alcuni passaggi trattati in maniera un po’ troppo semplicistica, così come certi dialoghi programmatici tra i due protagonisti che allontano lo spettatore da un’immedesimazione genuina e sincera. L’impalcatura marcatamente sociologica scopre talvolta il fianco di una scrittura fragile ma The Old Oak può tuttavia contare su quell’indagine ambientale che a un certo punto si fionda sui personaggi, instillando nello spettatore il desiderio di irrompere nella storia per provare a cambiare qualcosa e a sorreggere il protagonista nei momenti più bui, esortandolo a sperare ancora che qualcosa possa cambiare.




The Old Oak
cast cast & credits
 


La locandina del film

 
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