Nei confronti del Don Carlo di Verdi i tedeschi hanno sempre vantato un diritto di priorità
e, al contempo, patito un complesso dinferiorità. Il primo non deriva soltanto
dal dramma di Schiller che ne rappresenta la fonte letteraria. Proviene
pure dal fatto che questo apice tra i capolavori verdiani nei primi decenni del
Novecento subì in Italia uninspiegabile (o spiegabilissima: troppe difficoltà
orchestrali, un tenore antieroico e quindi poco tenorile…) damnatio memoriae che nemmeno gli occasionali accostamenti di Toscanini
fecero venir meno e solo la Verdi Renaissance tedesca degli anni Venti e Trenta – che restituì
rinnovata percezione anche a Simon
Boccanegra e La forza del destino – riuscì poi a scardinare. Il complesso
dinferiorità, se tale lo vogliamo intendere, deriva invece dallo sconcerto per
come Verdi rilegge Schiller. Il gusto germanico ha sempre preferito un realismo
didascalico alla dimensione fantastico-allusiva: il più imprevedibile e
fulminante di tutti i finali verdiani (qui il protagonista viene sottratto alla
crudeltà degli uomini dal fantasma dellavo Carlo V, che lo trascina con sé
nella tomba mentre il soprano commenta con un lapidario «O ciel!» in Si
naturale acuto sullultimo prolungato “fortissimo” orchestrale) spiazzò i
teatri austrotedeschi, che a lungo preferirono ricorrere a una prosaica
riscrittura dellepilogo, con Carlo che si pugnala ai piedi dellavello
imperiale.
Regista tedesco tra i più à la page, Claus Guth non intende certo tornare a
questa consuetudine nellallestimento (ledizione prescelta è quella italiana
in cinque atti) che ha inaugurato la stagione del San Carlo di Napoli.
Tuttavia, il suo lavoro e quello della Dramaturgin Yvonne Gebauer sinformano a tale atavica propensione
più illustrativa che visionaria, più concettuale che narrativa. Dunque da un
lato la regia cerca di esplicitare quanto Verdi, soprattutto nel transito dalla
versione francese a quella italiana dellopera, ha reso ellittico: lo scambio
dei veli tra Elisabetta ed Eboli, senza i quali sarebbe strano che Carlo possa
poi confondere la propria amata con la rivale, qui viene restituito con
chiarezza; e la relazione adulterina di Filippo II con la stessa Eboli –
fondamentale ai fini della trama, ma lasciata sottotraccia dal libretto –
diventa teatro di una scena muta tra le più centrate dello spettacolo.
Dallaltro lato, invece, si fa strada un Konzept tanto ingegnoso quanto invasivo: che asciuga gli orpelli del grand-opéra, surrogandoli però con una pletora di elementi
daltro tipo.
Una scena dello spettacolo © Luciano Romano
La realtà storica, infatti, cinsegna che Don Carlo
fu minato da tare psicofisiche; che il rapporto conflittuale con il padre
Filippo II avevano origini oggi ricostruibili in termini psicanalitici (la
madre morì mettendolo al mondo); e che insomma il Don Carlo eroico, da cappa e
spada, parente di Ernani o di Manrico, avrà lasciato tracce nellimmaginario
collettivo grazie a Franco Corelli (e altri tenori incanalati
sulla stessa direttrice, ancorché meno grandi di lui), ma non ha reso giustizia
né alla Storia né al dettato verdiano. Stando così le cose, Guth tenta la
strada di un claustrofobico teatro mentale, dove lo spettatore ricostruisce gli
eventi con gli occhi di un protagonista che, in realtà, per cinque atti non
esce neppure dalla sua stanza: ne scaturisce uno spettacolo zigzagante tra
sollecitazioni molto eterogenee a livello visivo, gravido di input
drammaturgici fino a tracimare, con un palcoscenico essenzialmente nudo (il
coro, come nel Boris Godunov di Ljubimov, spesso resta
confinato in una tribuna a celle) che finisce però con lapparire sovraccarico
tra proiezioni, mimi e presenza dei singoli personaggi anche quando questi
dovrebbero essere fuori scena.
A corroborare loperazione provvedono la
scenografia stilizzata (evocante spaesamenti kafkiani, ma con una
pavimentazione “depoca”) di Etienne Pluss, i costumi tra il
diacronico e il senza tempo di Petra Reinhardt, le livide luci
espressioniste di Olaf Freese e, soprattutto, un artista come Matthew
Polenzani: squillante come un tenore “vero” ma ripiegato, dissanguato,
ottenebrato come nessun tenore vorrebbe mai essere. È lui il miglior viatico
per la messinscena e difficilmente con un altro cantante si sarebbe potuta
costruire unoperazione analoga. Se da questi elementi trae buon partito, Guth
resta invece impastoiato da altri fattori: il fantasma freudiano della madre
morta in abito da sposa; i filmati di Carlo e Rodrigo bambini che giocano con
una spada di legno, destinati a ripetersi, con esiti di prevedibile monotonia,
ogni volta che i due personaggi, ormai adulti, appaiono in scena insieme;
smaccate citazioni iconografiche di Goya nella ricerca di una “tinta”
spagnola di cui, con unimpaginazione del genere, non ci sarebbe stato bisogno;
il ricorso a un nano-mimo, ovvio riferimento ai nani di corte e al celebre
ritratto di Velázquez, in sé bravissimo (il plastico e mercuriale Fabián
Augusto Gómez) ma distraente oltre ogni dire; e un Grande
Inquisitore qui non vecchio nonagenario, bensì giovane di unossimorica
ieraticità rampante, che da longa manus della Chiesa si trasforma
in braccio armato dun potere non meglio identificato (quello finanziario? quello
tecnologico?), ma comunque sovrastante qualsiasi autorità politica.
Una scena dello spettacolo © Luciano Romano
Ondivago tra forzature e sprazzi illuminanti, una
certa pesantezza espositiva e tocchi felici nel dirigere la recitazione
(Filippo intima «Restate!» a Rodrigo dandogli le spalle, come se sapesse che
lui è ancora lì pur non vedendolo), lo spettacolo è di quelli che, nel bene e
nel male, non lasciano indifferenti e, dunque, dovrebbe entrare in dialettica
con una direzione altrettanto personale e idiomatica. Purtroppo Juraj Valčuha
offre una lettura tendenzialmente squadrata e anelastica, avara di riverberi
sotterranei (i corni del chiostro di San Giusto sono in difetto di tetraggine e
mistero), priva di autentici contrasti (la scena dellautodafé risulta assai
disinnescata). Né si tratta di scomodare Abbado, Karajan o altri
paragoni impossibili: certi antichi artigiani del podio avevano la stessa
limitatezza coloristica di Valčuha, traducendola però in un bianco e nero
espressivo, come nel Don Carlo di Gabriele Santini;
o erano altrettanto carenti di affondi introspettivi, ma sapevano costruire una
narrazione vigorosa e serrata, come Franco Capuana.
Per fortuna i cantanti assemblati erano di quelli
che, come si suol dire, “sanno fare da soli”. Se Polenzani è il traino scenico
dello spettacolo, in una performance che comunque pure sotto il profilo
canoro dopo quattro ore non conosce cedimenti, autentici mattatori vocali sono
stati Ludovic Tézier e Elina Garanča. Il primo è
forse lunico baritono odierno capace di restituire nel ruolo di Rodrigo la
lezione di Tito Gobbi: dunque, un Marchese di Posa plasmato non
tanto sulla dimensione nobile e cavalleresca (questo molti altri grandi
cantanti, ieri come oggi, hanno saputo farlo), ma sullo scandaglio della mente
dun politico e del cuore dun utopista. Ovviamente, emerge un fil rouge
con Simon Boccanegra; e anche, in virtù della comune matrice schilleriana, con
Wallenstein. Mentre la bellezza – fisica e vocale – della Garanča, unita a un
controllo assoluto del proprio strumento, è il miglior passaporto per una
principessa di Eboli altera e disperata, sensuale e insidiosa nelle sue
superiori capacità dialettiche: in questa prospettiva, sono da fuoriclasse non
solo i melismi salottieri della Canzone del Velo, ma il modo con cui, nel
terzetto notturno, fa percepire la valenza ironica del trillo sulla “e” alla
frase «quella santa novella».
Una scena dello spettacolo © Luciano Romano UnEboli di tale caratura rischia di lasciare nelle
retrovie qualsiasi Elisabetta e, dato che così non è stato, ciò costituisce
prova inconfutabile dellaffidabilità di Ailyn Pérez: unottima
estensione che mantiene la sua omogeneità in tutta la gamma, al servizio di
unincarnazione nobilmente rassegnata. La commozione trattenuta, in questa
fanciulla che la corona ha invecchiato troppo presto, prevale su quegli ultimi
conati di passione che Verdi qua e là ancora le infonde; e Tu che le vanità
conoscesti del mondo, nel canto della Pérez, diventa come non mai
una resa alla pace della morte. Michele Pertusi ricava il massimo
dellespressività dalla sua voce ormai usurata e, almeno in termini di parola
scenica, il suo resta un Filippo II di grande autorevolezza. Nonostante mezzi
assai più freschi, laltro basso non è invece troppo soddisfacente: ma Alexander
Tsymbalyuk paga soprattutto lo scotto della scelta registica di un
Inquisitore giovane e, per ciò stesso, poco credibile innanzi tutto
timbricamente. Infine, ben a fuoco i personaggi minori: la solennità angosciosa
di Giorgi Manoshvili nel saio del frate-fantasma, la spigliatezza
cortigiana del Tebaldo en travesti di Cassandre Berthon
e la remota speranza della Voce dal cielo (qui in carne e ossa) di Maria
Sardaryan sono anchessi tasselli importanti di questo Don Carlo.
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