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Tra Schiller e Kafka

di Paolo Patrizi
  Don Carlo
Data di pubblicazione su web 06/12/2022  

Nei confronti del Don Carlo di Verdi i tedeschi hanno sempre vantato un diritto di priorità e, al contempo, patito un complesso d’inferiorità. Il primo non deriva soltanto dal dramma di Schiller che ne rappresenta la fonte letteraria. Proviene pure dal fatto che questo apice tra i capolavori verdiani nei primi decenni del Novecento subì in Italia un’inspiegabile (o spiegabilissima: troppe difficoltà orchestrali, un tenore antieroico e quindi poco tenorile…) damnatio memoriae che nemmeno gli occasionali accostamenti di Toscanini fecero venir meno e solo la Verdi Renaissance tedesca degli anni Venti e Trenta – che restituì rinnovata percezione anche a Simon Boccanegra e La forza del destino – riuscì poi a scardinare. Il complesso d’inferiorità, se tale lo vogliamo intendere, deriva invece dallo sconcerto per come Verdi rilegge Schiller. Il gusto germanico ha sempre preferito un realismo didascalico alla dimensione fantastico-allusiva: il più imprevedibile e fulminante di tutti i finali verdiani (qui il protagonista viene sottratto alla crudeltà degli uomini dal fantasma dell’avo Carlo V, che lo trascina con sé nella tomba mentre il soprano commenta con un lapidario «O ciel!» in Si naturale acuto sull’ultimo prolungato “fortissimo” orchestrale) spiazzò i teatri austrotedeschi, che a lungo preferirono ricorrere a una prosaica riscrittura dell’epilogo, con Carlo che si pugnala ai piedi dell’avello imperiale.

Regista tedesco tra i più à la page, Claus Guth non intende certo tornare a questa consuetudine nell’allestimento (l’edizione prescelta è quella italiana in cinque atti) che ha inaugurato la stagione del San Carlo di Napoli. Tuttavia, il suo lavoro e quello della Dramaturgin Yvonne Gebauer s’informano a tale atavica propensione più illustrativa che visionaria, più concettuale che narrativa. Dunque da un lato la regia cerca di esplicitare quanto Verdi, soprattutto nel transito dalla versione francese a quella italiana dell’opera, ha reso ellittico: lo scambio dei veli tra Elisabetta ed Eboli, senza i quali sarebbe strano che Carlo possa poi confondere la propria amata con la rivale, qui viene restituito con chiarezza; e la relazione adulterina di Filippo II con la stessa Eboli – fondamentale ai fini della trama, ma lasciata sottotraccia dal libretto – diventa teatro di una scena muta tra le più centrate dello spettacolo. Dall’altro lato, invece, si fa strada un Konzept tanto ingegnoso quanto invasivo: che asciuga gli orpelli del grand-opéra, surrogandoli però con una pletora di elementi d’altro tipo.


Una scena dello spettacolo
© Luciano Romano

La realtà storica, infatti, c’insegna che Don Carlo fu minato da tare psicofisiche; che il rapporto conflittuale con il padre Filippo II avevano origini oggi ricostruibili in termini psicanalitici (la madre morì mettendolo al mondo); e che insomma il Don Carlo eroico, da cappa e spada, parente di Ernani o di Manrico, avrà lasciato tracce nell’immaginario collettivo grazie a Franco Corelli (e altri tenori incanalati sulla stessa direttrice, ancorché meno grandi di lui), ma non ha reso giustizia né alla Storia né al dettato verdiano. Stando così le cose, Guth tenta la strada di un claustrofobico teatro mentale, dove lo spettatore ricostruisce gli eventi con gli occhi di un protagonista che, in realtà, per cinque atti non esce neppure dalla sua stanza: ne scaturisce uno spettacolo zigzagante tra sollecitazioni molto eterogenee a livello visivo, gravido di input drammaturgici fino a tracimare, con un palcoscenico essenzialmente nudo (il coro, come nel Boris Godunov di Ljubimov, spesso resta confinato in una tribuna a celle) che finisce però con l’apparire sovraccarico tra proiezioni, mimi e presenza dei singoli personaggi anche quando questi dovrebbero essere fuori scena.

A corroborare l’operazione provvedono la scenografia stilizzata (evocante spaesamenti kafkiani, ma con una pavimentazione “d’epoca”) di Etienne Pluss, i costumi tra il diacronico e il senza tempo di Petra Reinhardt, le livide luci espressioniste di Olaf Freese e, soprattutto, un artista come Matthew Polenzani: squillante come un tenore “vero” ma ripiegato, dissanguato, ottenebrato come nessun tenore vorrebbe mai essere. È lui il miglior viatico per la messinscena e difficilmente con un altro cantante si sarebbe potuta costruire un’operazione analoga. Se da questi elementi trae buon partito, Guth resta invece impastoiato da altri fattori: il fantasma freudiano della madre morta in abito da sposa; i filmati di Carlo e Rodrigo bambini che giocano con una spada di legno, destinati a ripetersi, con esiti di prevedibile monotonia, ogni volta che i due personaggi, ormai adulti, appaiono in scena insieme; smaccate citazioni iconografiche di Goya nella ricerca di una “tinta” spagnola di cui, con un’impaginazione del genere, non ci sarebbe stato bisogno; il ricorso a un nano-mimo, ovvio riferimento ai nani di corte e al celebre ritratto di Velázquez, in sé bravissimo (il plastico e mercuriale Fabián Augusto Gómez) ma distraente oltre ogni dire; e un Grande Inquisitore qui non vecchio nonagenario, bensì giovane di un’ossimorica ieraticità rampante, che da longa manus della Chiesa si trasforma in braccio armato d’un potere non meglio identificato (quello finanziario? quello tecnologico?), ma comunque sovrastante qualsiasi autorità politica.


Una scena dello spettacolo
© Luciano Romano

Ondivago tra forzature e sprazzi illuminanti, una certa pesantezza espositiva e tocchi felici nel dirigere la recitazione (Filippo intima «Restate!» a Rodrigo dandogli le spalle, come se sapesse che lui è ancora lì pur non vedendolo), lo spettacolo è di quelli che, nel bene e nel male, non lasciano indifferenti e, dunque, dovrebbe entrare in dialettica con una direzione altrettanto personale e idiomatica. Purtroppo Juraj Valčuha offre una lettura tendenzialmente squadrata e anelastica, avara di riverberi sotterranei (i corni del chiostro di San Giusto sono in difetto di tetraggine e mistero), priva di autentici contrasti (la scena dell’autodafé risulta assai disinnescata). Né si tratta di scomodare Abbado, Karajan o altri paragoni impossibili: certi antichi artigiani del podio avevano la stessa limitatezza coloristica di Valčuha, traducendola però in un bianco e nero espressivo, come nel Don Carlo di Gabriele Santini; o erano altrettanto carenti di affondi introspettivi, ma sapevano costruire una narrazione vigorosa e serrata, come Franco Capuana.

Per fortuna i cantanti assemblati erano di quelli che, come si suol dire, “sanno fare da soli”. Se Polenzani è il traino scenico dello spettacolo, in una performance che comunque pure sotto il profilo canoro dopo quattro ore non conosce cedimenti, autentici mattatori vocali sono stati Ludovic Tézier e Elina Garanča. Il primo è forse l’unico baritono odierno capace di restituire nel ruolo di Rodrigo la lezione di Tito Gobbi: dunque, un Marchese di Posa plasmato non tanto sulla dimensione nobile e cavalleresca (questo molti altri grandi cantanti, ieri come oggi, hanno saputo farlo), ma sullo scandaglio della mente d’un politico e del cuore d’un utopista. Ovviamente, emerge un fil rouge con Simon Boccanegra; e anche, in virtù della comune matrice schilleriana, con Wallenstein. Mentre la bellezza – fisica e vocale – della Garanča, unita a un controllo assoluto del proprio strumento, è il miglior passaporto per una principessa di Eboli altera e disperata, sensuale e insidiosa nelle sue superiori capacità dialettiche: in questa prospettiva, sono da fuoriclasse non solo i melismi salottieri della Canzone del Velo, ma il modo con cui, nel terzetto notturno, fa percepire la valenza ironica del trillo sulla “e” alla frase «quella santa novella».


Una scena dello spettacolo
© Luciano Romano

Un’Eboli di tale caratura rischia di lasciare nelle retrovie qualsiasi Elisabetta e, dato che così non è stato, ciò costituisce prova inconfutabile dell’affidabilità di Ailyn Pérez: un’ottima estensione che mantiene la sua omogeneità in tutta la gamma, al servizio di un’incarnazione nobilmente rassegnata. La commozione trattenuta, in questa fanciulla che la corona ha invecchiato troppo presto, prevale su quegli ultimi conati di passione che Verdi qua e là ancora le infonde; e Tu che le vanità conoscesti del mondo, nel canto della Pérez, diventa come non mai una resa alla pace della morte. Michele Pertusi ricava il massimo dell’espressività dalla sua voce ormai usurata e, almeno in termini di parola scenica, il suo resta un Filippo II di grande autorevolezza. Nonostante mezzi assai più freschi, l’altro basso non è invece troppo soddisfacente: ma Alexander Tsymbalyuk paga soprattutto lo scotto della scelta registica di un Inquisitore giovane e, per ciò stesso, poco credibile innanzi tutto timbricamente. Infine, ben a fuoco i personaggi minori: la solennità angosciosa di Giorgi Manoshvili nel saio del frate-fantasma, la spigliatezza cortigiana del Tebaldo en travesti di Cassandre Berthon e la remota speranza della Voce dal cielo (qui in carne e ossa) di Maria Sardaryan sono anch’essi tasselli importanti di questo Don Carlo.



Don Carlo



cast cast & credits
 
trama trama


Una scena dello spettacolo visto al Teatro San Carlo di Napoli il 1° dicembre 2022
© Luciano Romano

 
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