Scritto
in occasione dei cinquanta anni dellannessione dellAustria alla Germania di Hitler
e rappresentato per la prima volta il 4 novembre 1988 al Burgtheater di Vienna
con la regia di Claus Peymann, Heldenplatz di Thomas Bernhard
aveva scandalizzato ludienza e la classe politica austriache di allora,
esplicitamente accusate di essere ancora in forte odore di nazismo.
Al centro della pièce, atto unico in tre quadri, cè la vicenda di una famiglia
della Vienna della fine degli anni Ottanta che reagisce al suicidio – solo
raccontato – di Josef Schuster, professore di matematica ebreo, che si è dato
senechianamente la morte per sfuggire allonta e alla paura di vivere in
unAustria in preda a un revival nazionalsocialista. Per strada la
figlia Olga viene ricoperta di sputi: segno manifesto di un odio antisemita non
ancora superato. Una storia che «sembra quasi una profezia sullEuropa che
sarebbe venuta di lì a poco e che stiamo vivendo ancora adesso, lEuropa dei
sovranismi e dei populismi». Così il regista Roberto Andò
nellintervista a Angela Consagra, motivando la scelta politica di
dirigere il primo allestimento italiano di Piazza degli Eroi, nella
traduzione di Roberto Menin. Un testo tagliente e ironico, ultima fatica
teatrale dellamato e già frequentato grande scrittore e drammaturgo austriaco,
di cui Andò, nel 2017, aveva messo in scena Minetti (1976).
Prima dellinizio dello spettacolo, gli
spettatori prendono visione dellidea forte che caratterizza limpianto scenico
realizzato da Gianni Carluccio. Una serie di fogli sparsi sulle tavole
del proscenio, osservata da lontano, dà corpo a un apparente pavimento in cocci
di pietra sul quale giacciono numerose paia di scarpe da uomo. Un assetto che
ricorda (cita?) le Scarpe sulla riva del Danubio (2005), un gruppo
scultoreo allestito in memoria della Shoah sul lungo Danubio di Budapest
dallattore e regista cinematografico Can Togay e dallo scultore Gyula
Pauer. Ai fianchi in boiserie dellavanscena sono collocati da un
lato una porta e dallaltro un pianoforte verticale, mentre – letteralmente –
una “quarta parete” rende la scatola scenica ancora impermeabile alla vista. Questo
il pre-show, fortemente evocativo, che alimenta lattesa del pubblico in
sala.
Un momento dello spettacolo © Lia Pasqualino
Sollevatosi il muro-sipario, in una realistica
scena parapettata, costituita da due guardaroba a muro laterali, due finestroni
frontali e ingombrata da valigie, bauli e armadi da viaggio, la governante
signora Zittel (Imma Villa), in scena con la domestica Herta (Valeria
Luchetti), dà il via allazione, che si registra eminentemente sul piano
della parola per tutta la durata dello spettacolo. La governante, intenta a
lucidare le scarpe, a stirare e piegare le camicie del professore, intesse con
Herta un “dialogo” composto da lunghe, ripetitive battute alle quali la
cameriera non pare dare ascolto. La Zittel di Villa dà energicamente voce e
corpo a unazione verbale fondata su micro-variazioni ritmiche e linguistiche, ordendo
un monologo ossessivo circa le caratteristiche intellettuali e comportamentali
del defunto: cinico ma lucido pensatore, «pazzo fanatico della precisione»,
disgustato da tutto «ciò che lumanità ama» (come gli «iris» che per lui «hanno
un profumo letale»), consumato da un presente in cui «tutto è peggiorato
rispetto a cinquantanni fa», altresì persuaso che «quando luomo non ha più
via duscita deve uccidersi».
Lapparente quotidiano realismo della
prima scena va – per nostra fortuna – in cortocircuito segnatamente in forza di
una presenza accessoria alla diegesi: un pianista-performer (Vincenzo
Pasquariello) che, oltre a suonare virtuosamente il pianoforte illuminato
da una luce fredda, abita in silenzio lintero spazio scenico. Figura
dellinesorabilità della moira, actor zittito ma per nulla commosso da La
banalità del male, durante lintera recita volge brechtianamente il suo
sguardo distaccato al pubblico, prende appunti su un taccuino, sistema alcuni
accessori di scena, si aggira al di là delle finestre, si siede inerte sul ciglio
del proscenio. Ostacolando una piena immedesimazione, invita gli spettatori a
prendere coscienza dei meccanismi sociali, di ieri e di oggi, che determinano gli
orrori fascisti.
Un momento dello spettacolo
© Lia Pasqualino
La seconda parte è dominata da una luce cilestrina
e diffusa che, unitamente alla modulazione dellimpianto scenografico
costituito da un fondale neutro, concorre a determinare uno spazio simbolico e
destoricizzato. Sul palco, invaso da una pioggia intermittente di caduche
foglie autunnali, due panchine sono sovrastate da quattro scheletri dalberi secchi
appesi, iconologicamente impiccati dalle stesse radici che si pensava fossero
state recise. Qui agiscono le figlie del professore, la riservata Olga (Francesca
Cutolo) e la passionale Anna (Silvia Ajelli), nonché il pianista e lanziano
fratello del defunto, il professore di filosofia Robert, interpretato da un immenso
Renato Carpentieri, fermo e sicuro nelle sue variazioni vocali. Il
filosofo è un disilluso raisonneur che, pur avendo rinunciato da tempo
alla facoltà di protestare, denuncia con ardente passione il ritorno di un
«rigurgito nazista» e di una «megalomania sovranista» in una Austria e una Europa
dove tutto sembra distogliere lumanità «dalla catastrofe che arriverà»: un
colpo al cuore sia per gli attori sia per gli spettatori nellattuale momento
storico.
Il quadro finale ripropone un dato
scenografico simile al primo. Nella sala da pranzo dellappartamento viennese si
trovano riuniti Robert, Anna, Olga e due conoscenti del professore (Stefano
Jotti ed Enzo Salomone), raggiunti in ultimo anche da Lukas (Paolo
Cresta), figlio del suicida, nonché dalla vedova Schuster (Betti
Pedrazzi). Sulle prime il clima è grottesco, animato in scena anzitutto da
Robert, che inveisce sarcasticamente contro la stampa, luniversità, la
mancanza di carattere della sinistra, il laidume della destra, le demi-mondaines
del teatro, e in sala dalle risa e dai singulti del pubblico. Via via latmosfera
è ispessita dalla intermittenza dei rumori extrascenici (Hubert Westkemper),
dai violenti giochi di luce e dalla mimica inerte e allucinata di Betti
Pedrazzi, che gestisce sapientemente una sorta di alternata scissione del suo
personaggio. Da un lato la parte drammatica, relativa allinterazione con
gli attori sulla scena, e dallaltro quella epica, costituita da degli
“a parte” rivolti alludienza mediante un muto viso impietrito, isolato dal
contesto in penombra attraverso un occhio di bue, a commento della sua stessa voce
che scorre preregistrata. Un espediente registico voluto anche per alcune
battute di Robert.
Un momento dello spettacolo
© Lia Pasqualino
La signora Schuster, confidandosi in playback,
manifesta tutta la sua alienazione, frutto di una vita passata accanto a un intellettuale
inquieto e in una dimora capace di ridestare in lei leco delle voci, provenienti
da Piazza degli Eroi, che nel 1938 inneggiavano al Terzo Reich. La vedova,
agnello sacrificale, ma di una giudaica Ultima cena, si spegne stramazzando
con la testa nel piatto. I commensali, di scatto, si levano in piedi rimanendo congelati
come in posa per una foto di scena.
La recitazione
curatissima degli interpreti, abili specialmente nel modulare larmonia del proprio
strumento vocale, e la suggestiva drammaturgia dello spazio e del suono, diretti
dalla solerte regia di Andò, mettono in valore le sfumature e le divergenti
atmosfere di un dramma privato e, al contempo, collettivo. Lo spettacolo, forse
fin troppo fedele a un testo ipertrofico quale è quello di Bernhard, è senzaltro
una riuscita metafora contro ogni fascismo: da vedere, da soffrire, da godere.
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