Ginevra:
un gruppo di ragazze in difficoltà viene affidato alle cure di una casa-famiglia
e ai suoi amorevoli e attenti operatori. Ognuna di loro si approccia alla vita
in maniera diversa, provando a raccontare o a nascondere le ferite che si porta
dietro, fisiche e soprattutto emotive. Ognuna di loro è come una rosa:
bellissima ma pericolosa, in un mondo che sembra fare fatica a capirle.
Una scena del film
A
metà strada tra documentario e fiction, The
Fam (titolo originale The Mif,
molto più evocativo, simbolo di una sorta di disagio nello stesso linguaggio)
ha vinto non solo il Gran Premio per il Miglior Film Generation 14 Plus allultima
Berlinale ma, presentato in concorso al Giffoni Film Festival 2021, ha ottenuto il Premio Speciale Cinecircoli
Giovanili Socioculturali Percorsi Creativi. Una pellicola molto
personale, nata quasi come risposta a una esperienza di vita: il regista, Fred Baillif, autodidatta e con un
pugno di documentari alle spalle, già campione di basket nazionale Svizzera, ha
scritto, diretto, montato e in parte prodotto questo interessante mix
audiovisivo, basandosi soprattutto sul suo passato recente, vissuto come
assistente sociale in un centro di recupero per ragazzi difficili.
Una scena del film
Così
nasce The Fam: un vorticoso labirinto
emotivo, girato con “sprazzi” di sceneggiatura (lo stesso Baillif ha ammesso di
aver scritto molti dialoghi al momento) e con una struttura narrativa molto
ingegnosa. Come una sorta di nastro magnetico nelle mani del regista, il film
pone dei paletti narrativi “fissi” per raccontare la storia di un personaggio,
sviluppa una linea narrativa e poi torna indietro, poggiandosi su sequenze
temporali e spaziali a episodi, facendo tre passi avanti e uno indietro,
giocando con la memoria e soprattutto con la percezione dello spettatore, mettendola
continuamente in crisi e aumentando a dismisura il gap tra realtà e
finzione (Claudia Grob, ad esempio, che
interpreta la direttrice dellistituto, ha davvero in passato ricoperto un
ruolo lavorativo del genere).
Una scena del film
Lo
sguardo lanciato da Baillif sul mondo del disagio delle case-famiglia è
disarmante: se da un lato vuole evocare il dramma quotidiano a cui questi
giovani sono costretti a fuggire, dallaltro racconta una sorta di “educazione
sentimentale” delle giovani protagoniste e del loro rapporto con la sessualità.
È dietro questo aspetto che il film ha una potenza drammaturgica e metaforica
fortissima: le attrici non professioniste, attive collaboratrici alla
sceneggiatura con passati burrascosi nella loro vita privata, si muovono in una
sorta di prigione non solo materiale (la casa) e fisica (ognuno dei loro corpi
porta i segni del loro passato: picchiate, abusate, sfruttate), ma soprattutto
emotive e linguistiche. Il loro è un mondo a parte, fatto di regole precise,
con uno slang comprensibile solo alle adepte, in cui è facile entrare ma
difficile (e impossibile) uscire.
Contribuiscono a questo senso di claustrofobia
emotiva le riprese a spalla, con la videocamera che tallona le protagoniste
cercando di trasmettere anche un solo gemito, e la fotografia di Joseph Areddy, che gioca sulla scala
dei grigi, soprattutto quando si tratta di restare allinterno di quella che si
può definire una sorta di prigione-rifugio. «Who are you?» a un certo punto si
sente urlare; «The queen of punks, in the land of pain in the ass», risponde
una delle protagoniste, chiudendo il cerchio di un film straordinario.
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