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Il caro prezzo della democrazia

di Giuseppe Mattia
  Il processo ai Chicago 7
Data di pubblicazione su web 14/02/2021  

Con ben cinque candidature agli Oscar 2021, Il processo ai Chicago 7 si conferma uno dei titoli più interessanti del 2020. Prodotto dalla Dreamworks e distribuito dall’ormai onnipresente Netflix, l’ultimo film del premio Oscar Aaron Sorkin offre un’importante riflessione sulla società americana contemporanea nonostante l’ambientazione rifletta i movimenti culturali e politici della fine degli anni Sessanta. Ispirata a una storia vera, la pellicola è figlia di un processo produttivo lungo e travagliato: nata da un’idea di Steven Spielberg nel 2006, fu pensata per l’uscita nelle sale in vista delle presidenziali del 2008. Spielberg stesso coinvolse Sorkin come sceneggiatore prima di “cedergli” la regia e di ritagliarsi un ruolo nella produzione.


Una scena del film

In occasione della Convention Nazionale Democratica di Chicago del 1968, un gruppo di attivisti organizza una massiccia protesta contro la guerra in Vietnam che sfocerà in un bilancio di circa cinquecento feriti. Otto uomini – tra cui il co-fondatore del Black Panther Party Bobby Seale (Yahya Abdul-Mateen II), Abbie Hoffman (Sacha Baron Cohen) dello Youth International Party e Tom Hayden (Eddie Redmayne) del movimento Students for a Democratic Society – vengono trascinati in tribunale con l’accusa di incitamento alla sommossa e cospirazionismo. I personaggi vengono presentati con un montaggio parallelo nel periodo subito precedente la rivolta, attraverso l’utilizzo del flashback. Il “processo farsa”, o “processo politico” sulla falsariga dell’affare Dreyfus o di quello contro Sacco e Vanzetti, si rivela fin da subito una vera e propria trappola, con il giudice Hoffman (Frank Langella) nei panni del maestro d’orchestra e il procuratore Richard Schultz (Joseph Gordon-Levitt) in quello di primo violino. Lo scopo di tutta la messinscena è quello di elargire una punizione esemplare nei confronti dei capri espiatori, creando un vero e proprio deterrente per il futuro. Uno degli imputati afferma infatti: «Non siamo stati arrestati. Siamo stati scelti». Nel frattempo, fuori dalle aule del tribunale, una folla indiavolata grida il mantra “The Whole World is Watching”.

Il processo ai Chicago 7 inizia con un dirompente agglomerato di immagini di repertorio che introducono lo spettatore nel contesto di disordine e di violenza raccontato: dalla chiamata alle armi del presidente Johnson agli assassinii di Martin Luther King e di Bob Kennedy fino alle sequenze coppoliane dell’“apocalisse” del napalm in Vietnam. Un’overture antimilitarista ben gestita con un ritmo serrato e un efficace e intelligente montaggio sonoro, sintesi del periodo di profondi mutamenti sociopolitici e culturali (in prima fila nel corteo di protesta figura anche Allen Ginsberg) durante il primo anno del governo Nixon.  La punta di diamante dell’intero apparato drammaturgico coincide sicuramente con i dialoghi serrati e dinamici, gestiti in maniera brillante da un cast eccezionale, tra tutti Baron Cohen, Langella e l’eccellente Michael Keaton nel ruolo dell’ex procuratore Ramsey Clark, forse l’unico personaggio degno dell’appellativo di eroe. D’altronde Sorkin ha dimostrato già in passato la sua maestria come sceneggiatore sia per la televisione – con la fortunatissima serie The West Wing (1999-2006) – sia per il cinema con The Social Network (2010). A incidere sulla messa in scena la predilezione per gli ambienti chiusi (non a caso il regista per un periodo volle ridurre lo script a pièce).


Una scena del film

Il momento più drammatico, lampante riferimento al movimento attivista dei Black Lives Matter, concerne il trattamento riservato all’irruente imputato afroamericano Seale, allontanato momentaneamente dall’aula per essere poi ivi riportato legato e imbavagliato: uno degli avvocati, impietrito, si accerta che riesca a respirare, evidente riferimento al recente caso George Floyd. Se si volesse rintracciare invece nel film un tallone d’Achille, lo si individuerebbe nel finale autocompiaciuto: la cosiddetta “americanata” che tuttavia – complice il commento sonoro – favorisce il sicuro coinvolgimento emotivo dello spettatore. Sebbene la rappresentazione della sinistra radicale americana appaia un po’ stereotipata, va riconosciuto al regista il merito di averla trasposta sullo schermo nella sua incapacità di essere “assimilabile” né ai liberali né ai conservatori – un po’ come a suo modo il personaggio interpretato da Stefano Satta Flores in C’eravamo tanto amati (1974) – non riuscendo quindi, nemmeno nell’aula di tribunale, ad avere una voce unica come rappresentanza.

Parliamo insomma di un film a suo modo complesso nella lettura più profonda, che si scaglia contro le istituzioni repressive e conservative attuali. Quando l’avvocato Shultz domanda a Abbie se questi disprezzi il proprio governo, l’imputato risponde: «Le istituzioni della nostra democrazia sono straordinarie, ma ora sono gestite da persone orribili». Cordiali saluti al signor Trump.



Il processo ai Chicago 7
cast cast & credits
 



Il processo ai Chicago 7
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