Con Dio è donna e si chiama Petrunya, presentato in anteprima mondiale alla 69ª
edizione della Berlinale, la regista macedone Teona Strugar Mitevska si
è aggiudicata il Guild Film Prize e il Premio della giuria ecumenica,
riscuotendo un grande successo anche in altre rassegne internazionali, tra cui
il Torino Film Festival. La Macedonia contemporanea diventa il palcoscenico sul
quale viene messa in scena, in tre atti distinti, una battaglia che si accende allalba,
si infiamma di sera e si spegne di notte: una diatriba sviluppata nellarco di
una giornata ma che racconta con tatto e intelligenza una storia millenaria di
umiliazioni e soprusi.Nella
città di Štip, alle prime luci dellalba, è in corso la processione di una
comunità cristiana ortodossa, alla quale vengono sapientemente alternate icone
religiose con figure umane divorate da creature demoniache. Nella prima parte
del film Petrunya (Zorica Nusheva), trentaduenne laureata in Storia e
senza un impiego, appare sullo schermo rannicchiata sotto un lenzuolo, al riparo
dal mondo ostile rappresentato da una gretta e insensibile madre che le ha
procurato un colloquio di lavoro presso una fabbrica tessile. Il proprietario,
in un ufficio allegoricamente circondato da decine di sarte al suo servizio,
umilia e offende in malo modo la protagonista. Sulla strada verso casa,
Petrunya si ritrova tra una folla di uomini seminudi diretti al fiume per il
rituale del lancio della croce di legno da parte del pope locale. La donna, profondamente
turbata per il vilipendio subito durante il colloquio, prende parte alla
tradizione tuffandosi in acqua. Mossa da un istinto primordiale e animalesco, è
lei a impossessarsi della croce sia letteralmente sia simbolicamente, come un
Cristo donna, prima di fuggire inseguita da una folla inferocita.
Apparentemente al sicuro, la si vede distesa sul suo letto completamente nuda, libera
e con la croce sul petto, richiamando lesaltazione mistico-sessuale che vive il
personaggio principale di Sancta Susanna (1913) del drammaturgo August
Stramm.
Una scena del film
La
regista, insieme alla sceneggiatrice Elma Tataragic, architetta una serie di eventi che portano
la donna a scontrarsi con lo Stato e con la Chiesa, con il maschilismo sociale
e con il fanatismo religioso, sfuggendo alla ormai diffusa e superficiale tendenza
di marchiare a fuoco unopera con laggettivo “femminista”. Con una giusta dose
di alternanza tra satira e realismo, il film pone lattenzione sullipocrisia e
sul controllo sociale tenuto da funzionari ecclesiastici e statali che,
coadiuvati dal popolo, cercano di ristabilire lordine infranto da Petrunya. Tuttavia
i personaggi maschili nulla possono contro la determinazione di una donna che non
ha nulla da perdere, decisa a portare avanti la sua scelta di non restituire al
pope la croce legalmente conquistata, nonostante le vessazioni subite nella
seconda parte del film, interamente ambientata in un commissariato. La convinzione
ideologica della protagonista emerge durante un interrogatorio, in cui afferma
che il suo periodo storico preferito è la Rivoluzione cinese, quando Mao
Tse-tung integrò il comunismo in un sistema democratico, al fine di
assottigliare le disparità sociali.
Una scena del film
Il
film dedica un ampio spazio anche alla figura della reporter Slavica (Labina
Mitevska), metafora della giustizia mediatica e imparziale non sottomessa a
convenzioni e barriere morali. Questo personaggio è disposto a perdere il
proprio lavoro pur di raccontare in diretta il sopruso che si sta consumando,
intervistando dei passanti e la famiglia di Petrunya. La solidarietà femminile
trova la sua rappresentazione più vigorosa quando Slavica consola e rincuora la
donna, ricordandole i suoi diritti umani e soprattutto legali: non essendoci
stata una formale denuncia né tantomeno un fermo amministrativo, nessuno ha il
diritto di trattenerla in commissariato contro la sua volontà. La diatriba tra
la legge di Dio e la legge degli uomini entra nel vivo quando il gesto della
protagonista viene interpretato come una profanazione blasfema dallarcivescovo
di Skopje, impotente nel non poter ricorrere alla legge, in quanto la donna non
lha in alcun modo infranta. Dove non arriva il raziocinio pervengono la
rabbia, il vituperio, lingiuria, lincapacità di formulare civilmente opinioni;
tutto ciò è reso grottescamente in una scena dal sapore cristologico in cui la
donna attraversa la cieca e amorfa folla di fanatici sul punto di linciarla.
Qualcuno a un certo punto le scaraventa addosso una secchiata dacqua, elemento
naturale che richiama liniziale bagno (battesimale?) nel fiume, origine di
tutta la vicenda.
Una scena del film Lo
stile asciutto della regia, sorretto da una scrittura solida che non si lascia
trascinare nelle narrazioni stereotipate della cultura balcanica o di quella
ortodossa, riprende la protagonista frontalmente, spesso schiacciata sullo
sfondo delle inquadrature mentre il mondo maschile, pur tendando di prevaricare
la sua figura, viene riposto agli angoli del quadro, non a fuoco e molte volte
fuori campo. Alla regista non interessa il loro volto, ciò che conta è portare
allattenzione del pubblico un messaggio netto, indipendentemente dai movimenti
di emancipazione femminista che rischiano a volte di banalizzare il contenuto. Il
film risulta credibile, originale nello stile visivo e privo di retoriche
controproducenti. La consapevolezza raggiunta da Petrunya nel finale è
rappresentata in maniera coerente con un colpo di scena deciso, lasciando nello
spettatore il dubbio di che cosa sarebbe successo se Dio fosse stato donna.
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