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Le nuove Streghe tra (super)visioni e incubi digitali

di Pietro Ammaturo
  Le streghe
Data di pubblicazione su web 27/11/2020  

Da anni Guillermo del Toro è al lavoro su una “sua” versione di Pinocchio, continuamente rinviata (forse inizierà nel 2021). Doveva dirigere Lo Hobbit, lo aveva anche sceneggiato, ma in previsione di tempi e costi biblici tutto passò a Peter Jackson. In ultimo, doveva realizzare, in stop-motion, l’adattamento del romanzo Le streghe (The Witches, 1983) di Roald Dahl (saccheggiatissimo al cinema; dello stesso autore anche La fabbrica di cioccolato, ma il progetto è stato affidato a Robert Zemeckis. Il regista di Forrest Gump (1994) raduna la sua squadra di fidati, Don Burgess alla fotografia e Alan Silvestri alla colonna sonora, rivede la sceneggiatura già in parte scritta dallo stesso Del Toro (che intanto è passato a produrlo, il film, insieme a Alfonso Cuarón) e ricolloca la trama del romanzo nell’America razzista degli anni ’60, con un protagonista di colore invece di uno norvegese. 


Una scena del film

È indubbio che il tocco di Del Toro si senta: molti dei noti, chirurgici, bozzetti che disegna prima di dirigere un film devono aver trovato posto in questo girato. Cosa sono in fondo le mani delle streghe, se non una sorta di déjà-vu degli arti del mostro de Il labirinto del fauno (2006)? Ma se questi incubi prendono vita, dall’altro lato la mano di Zemeckis (quanto mai “ferma” registicamente e fotograficamente nonostante piani sequenza vertiginosi e l’idea sopita di un 3D inesistente) porta tutto a una comfort zone: lavorando d’eccesso più che di suggerimento, mostrando più che nascondendo, appiattendo un prodotto dalle molteplici possibilità narrative e visive. Se di Del Toro c’è l’approccio a tratti paradossale, ma allo stesso tempo raccapricciante, della finzione che può diventare reale (metafore per il pubblico adulto: il convegno sulla violenza sui bambini, il nemico “è proprio sotto di noi”, è il nostro vicino di casa); Zemeckis porta tutto a semplici opposti: luce-buio, colorato-monocromatico, piccolo-grande, facendo primeggiare così la chiave di lettura del principale pubblico al quale è destinato il film, quello degli adolescenti. Si pensi alle inquadrature della spiaggia dall’hotel (il mondo del “sano” divertimento e della normalità è lontano, l’orrore è nella incredibile realtà) oppure a tutti i luoghi chiusi che si aprono come delle scatole cinesi. 


Una scena del film

Il messaggio di Zemeckis è chiaro: per guardare (al) bene bisogna fare luce sulle piccole cose, ma allo stesso tempo provare a tenere distinti la vecchia realtà dalla perturbante finzione (digitale). Cos’è in fondo il proiettore mostrato a inizio film se non un modo per il regista di raccontarsi e lanciare il suo monito? Infatti qui la Performance Capture arriva a invertire totalmente i ruoli, mentre la Computer grafica irrompe (solo) sul volto di Anne Hathaway (la più convincete dell’opaco cast) nella trasformazione del preesistente. La colonna sonora di Silvestri, infine, non riesce a creare veri momenti epici di grande respiro, servendo da “riempitivo” per la vicenda (eccezione: i brani black della prima parte del film). Forse bastava osare e credere di più nella fantasia, lasciando libera la mente invece di far vincere l’occhio.



Le streghe
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