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Fuoco nel deserto

di Nicola Rakdej
  Notturno
Data di pubblicazione su web 26/09/2020  

Presentato in concorso alla 77° Mostra d’arte cinematografica di Venezia, dove non è riuscito a rientrare nel palmarès stabilito dalla giuria di Cate Blanchett, l’ultimo film di Gianfranco Rosi arriva a distanza di sette anni da quel Sacro GRA vincitore del Leone d’oro (il primo documentario a ottenere tale riconoscimento) e a quattro dal tanto discusso Fuocoammare, premiato al Festival internazionale del cinema di Berlino con l’Orso d’oro. 

Come nella tradizione etnografa del regista, Notturno è stato girato nell’arco di tre anni nelle zone di confine tra Siria, Libano, Iraq e Kurdistan, con l’obbiettivo di (rap)presentare i devastanti effetti (senza escludere un simbolico accenno alle cause) delle complesse, sanguinolente guerre che attanagliano il Medio Oriente da decenni. Al solito, Rosi segue la quotidianità di un gruppo di individui desiderosi di (ri)trovare la normalità in un presente difficile: madri che hanno perso i figli, figli che hanno perso le madri, una maestra che affronta i traumi degli alunni, un cacciatore di anatre, un gruppo di guerrigliere curde, una coppia di futuri sposi, soldati di frontiera, prigionieri nell’ora di svago, un ospedale psichiatrico e il suo programma di teatroterapia, un ragazzo che lavora a giornata per aiutare la famiglia.


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Ormai è noto il modus operandi di Rosi: questa sua ultima “sintetica” fatica, a detta sua anche particolarmente “pericolosa”, ne potenzia gli intenti evidenziando per tutta la sua (breve) durata la meticolosa ricerca poetica. Contro l’ingannevole e asettico spettacolo dell’amatoriale sociale e digitale, capace ormai di trasformarsi in immaginario collettivo più dei media “tradizionali” (anche più della televisione e della sua sbandierata reality), il regista rivendica continuamente la “magia tecnica” della macchina cinematografica, il potere immaginifico e illusorio di un occhio che rende eterni, che incanta e si lascia incantare, uno «strumento per ripensare il mondo attraverso lo sguardo» (S. Bernardi, Il paesaggio nel cinema italiano, Venezia, Marsilio, 2002, p. 17). E questo ben consapevole non solo che qualsiasi forma di rappresentazione sarà pur sempre lontana dalla realtà (tantomeno dalla verità), ma anche del rischio che lo spettatore più cinico non si lasci trasportare dall’euforia di un’immagine perfettamente composta e ben assestata. 

A differenza di altri grandi autori del documentario italiano (uno su tutti, Franco Maresco con la sua comicità grottesca e sporca), Rosi non rinuncia alla possibilità di enfatizzare e nobilitare ogni piccolo dettaglio emotivo o movimento di camera studiato e impostato nelle frasi preparative. Moltiplica i punti di vista, si avvicina e si allontana dai protagonisti della sua selezione umana e ideologica (la pulizia di una mitragliatrice, i prigionieri che escono in cortile), incede nel primo piano quando la situazione sembra esigerlo con forza (il racconto traumatico di un bambino che ha conosciuto la brutalità dell’ISIS), cristallizza la percezione del tempo cogliendo le pause del quotidiano (la caccia all’anatra, la noia dei posti di blocco, il narghilè degli amanti) e amplifica l’esperienza estetizzante di un paesaggio contaminato da un passato che non passa mai e che si rinnova in altre versioni di sé stesso. In particolare è proprio lo spazio a essere perno concettuale su cui Rosi fa ruotare il resoconto della sua esperienza: dall’aver reso il Medio Oriente un’unica regione astratta e senza confini, talvolta portando lo spettatore a confondersi sulle varie posizioni geografiche, al sottolineare il vuoto del deserto, cassa di risonanza per i rumori lontani degli scontri armati e veicolo senza interferenze delle loro luci (un po’ come era il raccordo anulare per i fari delle automobili in Sacro GRA o il mare per i lanciarazzi in Fuocoammare).


Una scena del film
© Biennale Cinema 2020

Purtroppo al termine di Notturno è forte la sensazione che a Rosi sia sfuggito dalle mani qualcosa della complessità del tema trattato. In questa serie di perfetti quadri fotografici (perché, in sostanza, questo sono) non emerge nemmeno quell’unica pirandelliana linea narrativa che, tra i tanti effetti mostrati, porta avanti un accenno alle cause e alla percezione locale della questione (il riferimento è allo spettacolo teatrale inscenato per e con i pazienti dell’ospedale pediatrico). Così ci si chiede quale sia il motivo di tanto attento vagare: cosa possa aggiungere il film rispetto a quello che è già stato detto e visto (anche in forma di finzione). Forse la risposta è da trovare all’inizio, quando il regista dona al lamento di una madre, sola tra le macerie della prigione in cui il figlio è stato brutalmente torturato, la consapevolezza che l’arte cinematografica farà conoscere il suo dolore a tutti coloro che stanno guardando. Se ciò sia sufficiente o meno, lo potrà stabilire solo il singolo spettatore.



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