Philipp Yuryev (Mosca, 1990) è al suo
primo lungometraggio. Non privo di ambizioni. Girato nellestremo lembo
orientale dellAsia, quando la terra si protende verso lestremo lembo
occidentale dellAlaska, fonde interessi antropologici con un più narrativo romanzo
di formazione. In uno sperdutissimo villaggio di cacciatori di balene proteso
sul misterioso (e quanto simbolico!) stretto di Bering dove la Russia e gli
Stati Uniti sono vicini fino a toccarsi (quattro kilometri distano tra loro le
due isole Diomede, americana luna, russa laltra) vive Leshka. È giovane e
curioso e mal sopporta la vita primordiale della microscopica comunità, segnata
dai ritmi delle maree e dal duro e ripetitivo lavoro che tutta la coinvolge con
i suoi meccanismi secolari. O si sta sul mare o si sta in casa, non esistono
luoghi di ritrovo, non esistono donne né ragazze. La modernità è entrata con le
barche a motore, con uno scassato motorino che il giovane protagonista
condivide con un assonnato coetaneo. Ma soprattutto la modernità è entrata con
Internet che consente agevolmente di captare le pratiche del mondo nuovo,
finora irraggiungibile e ora a portata di clic. E i clic sono sempre più spesso
sui siti erotici, dove i pochi uomini della comunità si soffermano qualche
minuto prima di rientrare nelle loro baracche e ai quali i giovani affidano i
loro sogni e le loro domande.
Una scena del film © Biennale Cinema 2020
Blando passatempo per tutti, scuola di
formazione e illusione per Leshka che non si accontenta di una visione
compulsiva ma affida la sua formazione e il suo destino, nello stordimento
spazio-temporale della chat, a una porno influencer di Detroit. La moderna Dulcinea diventa la sua missione, la sua speranza, lo
scopo della sua vita, Detroit il suo Graal per conquistare il quale non esita a
uccidere lamico che gli si prospetta come rivale (immagina fantasmaticamente
che si intrattenga con l “amata”). E poi via, con qualche reminiscenza
dellempito di libertà del protagonista di Into the Wild, verso loriente salvifico, verso il sogno americano. Basta rubare
una barca, prendere un fucile e qualche scatoletta di cibo per partire verso il
suo viaggio di formazione. Pochi gli ostacoli: qualche bracconiere, il mare
ghiacciato ma poi… la guardia costiera americana lo intercetta e lo accoglie,
intenerita dalla sua ingenuità e promette di portarlo a Detroit, lunica parola
che lui pronuncia ossessivamente e che estrae dallo stentato inglese che aveva
imparato nelle lunghe notti dinverno per essere pronto allincontro con “Hollysweet_999”. Una scena del film © Biennale Cinema 2020
Ma è tutto così facile? È tutto così vero?
Il tema portante del film – e cioè il rapporto tra sogno e realtà, la labilità
del confine tra luno e laltra in un mondo in cui la realtà virtuale pare
sempre più sovrapporsi a quella reale – pare virare bruscamente verso
lapologo, quando tutto sembra riprendere le vie più prosaiche della realtà e
il nostro buon cacciatore Leshka ricompare stabilmente nella sua isola con le
sue baracche e lamico che credeva di aver ucciso semplicemente un po
fasciato. La narrazione che aveva proceduto con una sua garbata freschezza pare
dunque impennarsi in una presunzione di universalità francamente un po
sproporzionata al garbato andamento narrativo. Si tratta comunque di unopera
prima, il giovane regista avrà tutto il tempo per decantare il suo talento
imbrigliandolo in tematiche più contenute.
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