A
pochi giorni di distanza uno dallaltro, se ne sono andati i due centenari
della scena italiana, prima Gianrico
Tedeschi e poi Franca Valeri, ed
è come se questultima avesse atteso qualche giorno, lo stretto necessario, per
non rubargli la scena, attendendo che terminasse il lungo applauso di saluto a
un attore grande, per farsi a sua volta alla ribalta a cogliere la meritata
ovazione di addio alla grande attrice che è stata. Milanesi entrambi, i loro
percorsi artistici si sono intrecciati quando nella stagione 1965-1966 un
formidabile terzetto composto con Walter
Chiari, diretto da Peppino Patroni
Griffi, porta in scena la commedia di Murray
Schisgal Luv, che affronta il
tema scabroso della coppia aperta.
Non
a caso Enrica Tedeschi conclude il
suo bel libro dedicato al padre (Semplice,
buttato via, moderno. Il “teatro per la vita” di Gianrico Tedeschi, Roma,
Viella, 2019, pp. 165-170) con una lunga intervista a Franca Valeri, «la
milanese che ha inventato una romanaccia come la Sora Cecioni, la donna
coltissima eppure semplice, la meneghina snob che sa mettersi nei panni degli
altri e comprendere il disagio: dei poveri, degli animali, della cultura
contemporanea». Alla domanda cosavessero in comune la Valeri risponde: «Beh,
eravamo milanesi tutti e due. Non è poco avere Milano in comune, specie dal punto
di vista teatrale. Ma anche come metodo di lavoro. Andavamo molto daccordo. A
me piacciono le cose ordinate, ben
fatte. Gianrico è sempre stato molto disciplinato. Amava quel che faceva e lo
faceva con ordine, metodo, precisione. E, sai, proprio in quello spettacolo lì,
Luv, la questione della disciplina ci
mise molto alla prova. Avevamo a che fare con Walter – al quale non si poteva
non voler bene… era una persona bellissima e un grande attore, ma era
terribilmente indisciplinato! Ci pensa un attimo, poi aggiunge: – Walter era un
terremoto!».
Alma
Franca Maria Norsa è nata a Milano il 31 luglio 1920 ed è morta a Roma il 9
agosto 2020. Secondogenita, di famiglia altoborghese, il padre era di religione
ebraica, la madre cattolica. Assume il nome darte Valeri in omaggio a Paul Valéry. Rifiutata allAccademia
Nazionale dArte Drammatica, non si perde danimo, considerando, anzi, quel
rifiuto una fortuna: «Ero libera. Non potevo dopo cinque anni di guerra
cominciare allombra di tre anni di scuola». Il lapidario commento è tratto dal
libro Bugiarda no, reticente (Torino,
Einaudi, 2010, p. 70), titolo spiritoso, citazione di una definizione
memorabile coniata da sua madre per una Franca ancora bambina. Sarebbe
riduttivo definirlo un libro di ricordi, quanto, piuttosto, una mise en abyme della memoria in forma di
conversazioni notturne con sé stessa o di intervista con una immaginaria quanto
impacciata giornalista, che si traduce in un dialogo con il lettore, denso di
battute fulminanti. Così come ricco di divagazioni ironiche è il successivo La vacanza dei superstiti (e la chiamano
vecchiaia) (Torino, Einaudi, 2016).
Incursioni
non tardive nella scrittura, che lattrice Valeri ha sempre coltivato, magari
sotto forma di copioni e sceneggiature, accanto allaltra sua grande passione
per la musica. Liniziazione alla musica avviene da bambina, quando frequenta
la Scala in un palco di proscenio a picco sullorchestra: «Il soffio sordo e
leggermente polveroso dellapertura del sipario della Scala è ancora
lucidamente nelle mie orecchie, come dire nel mio cuore. Di qua ceravamo io,
il maestro, lorchestra, il palcoscenico; di là il pubblico, le volpi bianche.
Gli ermellini ingialliti, i gioielli e i profumi. Era il mio debutto» (Bugiarda no, reticente, cit., p. 11).
Poco distante dalla Scala, un teatrino a palchi, di minime proporzioni, è la
scatola magica di altre emozioni: «Il Gerolamo, non più attivo credo, era
quella piccola preziosa Scala dove hanno agito per molti anni le marionette dei
Colla. Un miracolo di perfezione. Posso dire che dopo la Scala è stato lagente
della mia passione. Lì ci veniva volentieri anche mio fratello. Lo spettacolo
più mirabolante era il Ballo Excelsior.
Quando si apriva la galleria del Sempione lemozione era sempre nuova» (ivi, p.
68).
Il
debutto come attrice avviene nel 1947 in Lea
Lebowitz, con il regista Alessandro
Fersen e lo scenografo Emanuele
Luzzati, spettacolo fondativo di una identità ebraica, rivendicata da
Franca Valeri, che non volle mai separarsi dalla stella di David portata al
collo, lei che aveva vissuto a Milano gli anni delle persecuzioni razziali,
insieme con la madre, con documenti falsi, mentre padre e fratello erano
riparati in Svizzera. Ma la notorietà le viene nel 1949 con i Gobbi, trio che
la vede affiancata da Vittorio Caprioli,
suo marito, e Alberto Bonucci (in
seguito sostituito da Luciano Salce),
diretti da Luciano Mondolfo. Insieme
danno vita a un cabaret surreale, presto esportato con successo a Parigi (Carnet de notes 1 e 2). Da quellesperienza deriverà il film di Caprioli Parigi o cara (1962), che, in anticipo
su Irma la dolce di Billy Wilder, la vede interpretare una
prostituta romana alla ricerca di evasione nella capitale francese. Con la
chiusura del sodalizio prende avvio la carriera da solista, in cui crea una
serie di caratterizzazioni, inconfondibili e personali.
Dalla
conoscenza della buona società meneghina deriva la Signorina Snob, personaggio
«emblematico, sempre perfetto nella sua maschera e sempre a disagio, sempre
imbecille e sempre acuto, sempre scattante sulle sue onde trionfanti e sempre
infelice senza saperlo» (ivi, p. 27), presto seguita dalla Cesira, milanese, di
professione manicure, intrisa di sentimenti piuttosto che di pensieri, incline
alla divagazione, vittima del «suo ostinato e dolente ottimismo» (ivi, p. 29).
Al trasferimento a Roma si deve la terza delle sue indimenticabili
caratterizzazioni, che è valsa alla milanese Franca Valeri il soprannome di
«Petrolini in gonnella»: parliamo della Sora Cecioni, personaggio invasivo
carico di ironia verso il prossimo: «Parla anche se non è interpellata e quando
parla è sempre protagonista. Niente è più riposante per un autore di un
personaggio del genere. Autonomo, anche troppo. Si è fatto subito imitare da
tutti. Che indecenza!» (ivi, p. 30). Ma la comicità, rivendica orgogliosamente,
non è un dono di natura, è lavoro di cervello.
Anche
il cinema si accorge di lei e tra il 1950 e il 1980 gira una quarantina di
film, spesso in coppia con Alberto Sordi
e Totò. Il debutto sul grande
schermo avviene con Luci del varietà
(1950) di Fellini e Lattuada, in cui impersona una
coreografa ungherese. Seguono molti altri film, tra i quali ricordiamo Il segno di Venere (1955) accanto a Sofia Loren e Il vedovo (1959) con Sordi (coniuge inetto, da lei apostrofato
«Cretinetti»), entrambi con la regia di Dino
Risi che, insieme con Il bigamo
(1956) di Luciano Emmer (con Marcello Mastroianni, Vittorio De Sica e Giovanna Ralli), testimoniano le doti di intelligenza del
personaggio, la sua autoironia: «il cinema mi ha dato molto, che allora voleva
dire “mi è servito molto”. Almeno una volta alla settimana incontro qualcuno
che mi dice: “Ieri sera ho rivisto Il
vedovo per la sesta volta» (ivi, p. 65).
Voce
ricorrente nei palinsesti dei programmi radiofonici, la sua presenza non è meno
assidua in televisione: dalla grande stagione degli sceneggiati televisivi ai
varietà, sino agli anni doro della pubblicità di Carosello. E, a partire dagli
anni Settanta, è impegnata anche sul versante delle regie liriche, dove ha modo
di mettere a frutto la sua cultura musicale. Impossibile ripercorrere la sua
poliedrica attività artistica, senza cadere in un elenco, fitto di titoli e
date. Meglio allora lasciarsi accompagnare da lei nei ricordi della sua vita.
È,
infatti, di volta in volta protagonista e testimone della stagione della
rinascita teatrale del secondo dopoguerra: «Rivedo Giancarlo Menotti seduto accanto a me a Caracalla, mentre sul
palcoscenico albeggia un Trovatore e
mi dice che è deciso, il festival lo farà a Spoleto. […] Il festival di Spoleto
nasceva tra la fine di giugno e metà luglio, come una bolla leggera che ci
faceva galleggiare in unesperienza nuova di cultura elegante internazionale.
LItalia ha questo di particolare, il suo provincialismo fa gola
allinternazionalismo che gode a stemperare la sua sciccheria fra quelle pietre
di pura bellezza. […] Si inaugurava col Macbeth
di Verdi. Ero la sola a
conoscere perfettamente lopera, allora poco eseguita. Regia super di Visconti. Quando Schippers è salito sul podio, un inatteso arcangelo Gabriele, tutte
le donne e i gay hanno trattenuto il fiato» (ivi, p. 63).
Le
era già capitato di assistere allannuncio di un altro «mitico progetto»;
questa volta la scena si svolge a Milano, in casa di amici: «Strehler,
trentenne, con le sue alzate e sedute abituali, neanche un capello bianco, ci
prospettava il Piccolo, sembrava sicuro di avere quel cinema di via Rovello.
[…] Sulla porta del teatro, la sera dellinaugurazione, una Milano molto
partecipe capeggiata dal sindaco Greppi,
bravo, ci aveva messo il suo sostegno. Io guardavo alla mia destra il portone
che si apriva su un cortile; ne avevo visto uscire un sinistro personaggio duro
del Regime, Ettore Muti. Adesso
cera un teatro al posto della morte civile. Qualche volta il destino è proprio
bello» (ivi, p. 64). Come la mamma, allergica ai compleanni, Franca Valeri non
mancava, però, di festeggiare il 25 aprile.
Ma
due nomi campeggiano nella sua memoria di spettatrice di lungo corso: Maria Callas e Rina Morelli, due grandi
artiste che «si sono portate via il mistero della loro creatività». Due mondi,
la Callas: «la sua presenza sacrificava qualche volta il contenuto dellanima,
qualche volta la risento nelle registrazioni; come hai potuto, Maria, cogliere
la verità che la musica avrebbe anche potuto celare? A te non sarebbe mai
sfuggita. Hai avuto una grande maestra, hai avuto dei grandi registi, ma quello
non te lo insegna nessuno, quando la tua voce scopriva la sua anima e ci
portava quella dei personaggi…». Così la Morelli. Lopposto. Esile, lei poteva
essere – con la sua inconfondibile voce che ricordiamo sempre con quella
aggressiva di Paolo Stoppa – una
grande inventrice di realtà scenica. Anche lei come la Maria Callas aveva
larma segreta che ti mandava a casa a pensare» (La vacanza dei superstiti, cit., pp. 35-36).
Lamicizia
occupa un posto centrale nella scala dei valori dellattrice. Figlia di Renzo Ricci e nipote di Ermete Zacconi, nonché prima moglie di Vittorio Gassman, Nora Ricci è stata la grande amica della maturità: «Lironia di
Nora corrodeva tutto, era qualcosa dincontenibile che esercitava anche, e
talvolta soprattutto, sulle persone che amava. Mi ha risparmiato perché eravamo
complici. Ho ancora in testa la sua voce (Nora è morta da più di trentanni) al
telefono, tutti i giorni, cominciava con “Franca” e cera già dentro un
sottinteso ironico. Chi avrebbe colpito? Aspettavo godendomela» (Bugiarda no, reticente, cit., p. 53).
Laltro amico del cuore era Peppino
Patroni Griffi («Le due vestali e il gran sacerdote»): «Questa era
lamicizia per noi: vivere, condividere, spiare, giudicare, un rapporto fluido,
necessario, a conti fatti il più importante» (ivi, p. 54).
In
palcoscenico lattrice si sente a casa: «Il palcoscenico si rivela in tutta la
sua verità quando cè il pubblico, e tinsidia nella parte più fragile, il
corpo. Anche immobile, ne senti la falsità. Il palcoscenico è un vecchio
dispettoso, la sua amicizia la fa pesare. Diventerà poi nel tempo un amico
meraviglioso. Lunica vera casa di un vero attore» (ivi, p. 31).
Lattrice,
dice la Valeri, è una creatura dimidiata, che, mentre recita, si vede e si
giudica, si compiace o si dispiace, si approva o disapprova, si studia, si
ausculta, risente le sue intonazioni, se buone, le memorizza, se false, le
cancella, in un incessante entrare e uscire dalla parte, una porta girevole nel
cervello. Il teatro è un mondo illusorio, ma basta credere a quella illusione
perché diventi più reale del reale: «Guardateli, stanno provando una commedia,
magari anche mediocre, ma in quel momento si ritengono a un crocevia storico».
«“Quella
battuta io la vedo così”».
«“Ma
cara, non hai capito, è la chiave del personaggio”».
«“Ma
per favore”».
«“Parliamone”».
«Beati
loro; fuori ci sono altri problemi».
«E
io faccio parte di questo mondo illusorio» (ivi, pp. 32-33).
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