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Ricordo di Franca Valeri

di Alessandro Tinterri
  Franca Valeri
Data di pubblicazione su web 15/08/2020  

A pochi giorni di distanza uno dall’altro, se ne sono andati i due centenari della scena italiana, prima Gianrico Tedeschi e poi Franca Valeri, ed è come se quest’ultima avesse atteso qualche giorno, lo stretto necessario, per non rubargli la scena, attendendo che terminasse il lungo applauso di saluto a un attore grande, per farsi a sua volta alla ribalta a cogliere la meritata ovazione di addio alla grande attrice che è stata. Milanesi entrambi, i loro percorsi artistici si sono intrecciati quando nella stagione 1965-1966 un formidabile terzetto composto con Walter Chiari, diretto da Peppino Patroni Griffi, porta in scena la commedia di Murray Schisgal Luv, che affronta il tema scabroso della coppia aperta.

Non a caso Enrica Tedeschi conclude il suo bel libro dedicato al padre (Semplice, buttato via, moderno. Il “teatro per la vita” di Gianrico Tedeschi, Roma, Viella, 2019, pp. 165-170) con una lunga intervista a Franca Valeri, «la milanese che ha inventato una romanaccia come la Sora Cecioni, la donna coltissima eppure semplice, la meneghina snob che sa mettersi nei panni degli altri e comprendere il disagio: dei poveri, degli animali, della cultura contemporanea». Alla domanda cos’avessero in comune la Valeri risponde: «Beh, eravamo milanesi tutti e due. Non è poco avere Milano in comune, specie dal punto di vista teatrale. Ma anche come metodo di lavoro. Andavamo molto d’accordo. A me piacciono le cose ordinate, ben fatte. Gianrico è sempre stato molto disciplinato. Amava quel che faceva e lo faceva con ordine, metodo, precisione. E, sai, proprio in quello spettacolo lì, Luv, la questione della disciplina ci mise molto alla prova. Avevamo a che fare con Walter – al quale non si poteva non voler bene… era una persona bellissima e un grande attore, ma era terribilmente indisciplinato! Ci pensa un attimo, poi aggiunge: – Walter era un terremoto!».

Alma Franca Maria Norsa è nata a Milano il 31 luglio 1920 ed è morta a Roma il 9 agosto 2020. Secondogenita, di famiglia altoborghese, il padre era di religione ebraica, la madre cattolica. Assume il nome d’arte Valeri in omaggio a Paul Valéry. Rifiutata all’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica, non si perde d’animo, considerando, anzi, quel rifiuto una fortuna: «Ero libera. Non potevo dopo cinque anni di guerra cominciare all’ombra di tre anni di scuola». Il lapidario commento è tratto dal libro Bugiarda no, reticente (Torino, Einaudi, 2010, p. 70), titolo spiritoso, citazione di una definizione memorabile coniata da sua madre per una Franca ancora bambina. Sarebbe riduttivo definirlo un libro di ricordi, quanto, piuttosto, una mise en abyme della memoria in forma di conversazioni notturne con sé stessa o di intervista con una immaginaria quanto impacciata giornalista, che si traduce in un dialogo con il lettore, denso di battute fulminanti. Così come ricco di divagazioni ironiche è il successivo La vacanza dei superstiti (e la chiamano vecchiaia) (Torino, Einaudi, 2016).

Incursioni non tardive nella scrittura, che l’attrice Valeri ha sempre coltivato, magari sotto forma di copioni e sceneggiature, accanto all’altra sua grande passione per la musica. L’iniziazione alla musica avviene da bambina, quando frequenta la Scala in un palco di proscenio a picco sull’orchestra: «Il soffio sordo e leggermente polveroso dell’apertura del sipario della Scala è ancora lucidamente nelle mie orecchie, come dire nel mio cuore. Di qua c’eravamo io, il maestro, l’orchestra, il palcoscenico; di là il pubblico, le volpi bianche. Gli ermellini ingialliti, i gioielli e i profumi. Era il mio debutto» (Bugiarda no, reticente, cit., p. 11). Poco distante dalla Scala, un teatrino a palchi, di minime proporzioni, è la scatola magica di altre emozioni: «Il Gerolamo, non più attivo credo, era quella piccola preziosa Scala dove hanno agito per molti anni le marionette dei Colla. Un miracolo di perfezione. Posso dire che dopo la Scala è stato l’agente della mia passione. Lì ci veniva volentieri anche mio fratello. Lo spettacolo più mirabolante era il Ballo Excelsior. Quando si apriva la galleria del Sempione l’emozione era sempre nuova» (ivi, p. 68).

Il debutto come attrice avviene nel 1947 in Lea Lebowitz, con il regista Alessandro Fersen e lo scenografo Emanuele Luzzati, spettacolo fondativo di una identità ebraica, rivendicata da Franca Valeri, che non volle mai separarsi dalla stella di David portata al collo, lei che aveva vissuto a Milano gli anni delle persecuzioni razziali, insieme con la madre, con documenti falsi, mentre padre e fratello erano riparati in Svizzera. Ma la notorietà le viene nel 1949 con i Gobbi, trio che la vede affiancata da Vittorio Caprioli, suo marito, e Alberto Bonucci (in seguito sostituito da Luciano Salce), diretti da Luciano Mondolfo. Insieme danno vita a un cabaret surreale, presto esportato con successo a Parigi (Carnet de notes 1 e 2). Da quell’esperienza deriverà il film di Caprioli Parigi o cara (1962), che, in anticipo su Irma la dolce di Billy Wilder, la vede interpretare una prostituta romana alla ricerca di evasione nella capitale francese. Con la chiusura del sodalizio prende avvio la carriera da solista, in cui crea una serie di caratterizzazioni, inconfondibili e personali.

Dalla conoscenza della buona società meneghina deriva la Signorina Snob, personaggio «emblematico, sempre perfetto nella sua maschera e sempre a disagio, sempre imbecille e sempre acuto, sempre scattante sulle sue onde trionfanti e sempre infelice senza saperlo» (ivi, p. 27), presto seguita dalla Cesira, milanese, di professione manicure, intrisa di sentimenti piuttosto che di pensieri, incline alla divagazione, vittima del «suo ostinato e dolente ottimismo» (ivi, p. 29). Al trasferimento a Roma si deve la terza delle sue indimenticabili caratterizzazioni, che è valsa alla milanese Franca Valeri il soprannome di «Petrolini in gonnella»: parliamo della Sora Cecioni, personaggio invasivo carico di ironia verso il prossimo: «Parla anche se non è interpellata e quando parla è sempre protagonista. Niente è più riposante per un autore di un personaggio del genere. Autonomo, anche troppo. Si è fatto subito imitare da tutti. Che indecenza!» (ivi, p. 30). Ma la comicità, rivendica orgogliosamente, non è un dono di natura, è lavoro di cervello.

Anche il cinema si accorge di lei e tra il 1950 e il 1980 gira una quarantina di film, spesso in coppia con Alberto Sordi e Totò. Il debutto sul grande schermo avviene con Luci del varietà (1950) di Fellini e Lattuada, in cui impersona una coreografa ungherese. Seguono molti altri film, tra i quali ricordiamo Il segno di Venere (1955) accanto a Sofia Loren e Il vedovo (1959) con Sordi (coniuge inetto, da lei apostrofato «Cretinetti»), entrambi con la regia di Dino Risi che, insieme con Il bigamo (1956) di Luciano Emmer (con Marcello Mastroianni, Vittorio De Sica e Giovanna Ralli), testimoniano le doti di intelligenza del personaggio, la sua autoironia: «il cinema mi ha dato molto, che allora voleva dire “mi è servito molto”. Almeno una volta alla settimana incontro qualcuno che mi dice: “Ieri sera ho rivisto Il vedovo per la sesta volta» (ivi, p. 65).

Voce ricorrente nei palinsesti dei programmi radiofonici, la sua presenza non è meno assidua in televisione: dalla grande stagione degli sceneggiati televisivi ai varietà, sino agli anni d’oro della pubblicità di Carosello. E, a partire dagli anni Settanta, è impegnata anche sul versante delle regie liriche, dove ha modo di mettere a frutto la sua cultura musicale. Impossibile ripercorrere la sua poliedrica attività artistica, senza cadere in un elenco, fitto di titoli e date. Meglio allora lasciarsi accompagnare da lei nei ricordi della sua vita.

È, infatti, di volta in volta protagonista e testimone della stagione della rinascita teatrale del secondo dopoguerra: «Rivedo Giancarlo Menotti seduto accanto a me a Caracalla, mentre sul palcoscenico albeggia un Trovatore e mi dice che è deciso, il festival lo farà a Spoleto. […] Il festival di Spoleto nasceva tra la fine di giugno e metà luglio, come una bolla leggera che ci faceva galleggiare in un’esperienza nuova di cultura elegante internazionale. L’Italia ha questo di particolare, il suo provincialismo fa gola all’internazionalismo che gode a stemperare la sua sciccheria fra quelle pietre di pura bellezza. […] Si inaugurava col Macbeth di Verdi. Ero la sola a conoscere perfettamente l’opera, allora poco eseguita. Regia super di Visconti. Quando Schippers è salito sul podio, un inatteso arcangelo Gabriele, tutte le donne e i gay hanno trattenuto il fiato» (ivi, p. 63).

Le era già capitato di assistere all’annuncio di un altro «mitico progetto»; questa volta la scena si svolge a Milano, in casa di amici: «Strehler, trentenne, con le sue alzate e sedute abituali, neanche un capello bianco, ci prospettava il Piccolo, sembrava sicuro di avere quel cinema di via Rovello. […] Sulla porta del teatro, la sera dell’inaugurazione, una Milano molto partecipe capeggiata dal sindaco Greppi, bravo, ci aveva messo il suo sostegno. Io guardavo alla mia destra il portone che si apriva su un cortile; ne avevo visto uscire un sinistro personaggio duro del Regime, Ettore Muti. Adesso c’era un teatro al posto della morte civile. Qualche volta il destino è proprio bello» (ivi, p. 64). Come la mamma, allergica ai compleanni, Franca Valeri non mancava, però, di festeggiare il 25 aprile.

Ma due nomi campeggiano nella sua memoria di spettatrice di lungo corso: Maria Callas e Rina Morelli, due grandi artiste che «si sono portate via il mistero della loro creatività». Due mondi, la Callas: «la sua presenza sacrificava qualche volta il contenuto dell’anima, qualche volta la risento nelle registrazioni; come hai potuto, Maria, cogliere la verità che la musica avrebbe anche potuto celare? A te non sarebbe mai sfuggita. Hai avuto una grande maestra, hai avuto dei grandi registi, ma quello non te lo insegna nessuno, quando la tua voce scopriva la sua anima e ci portava quella dei personaggi…». Così la Morelli. L’opposto. Esile, lei poteva essere – con la sua inconfondibile voce che ricordiamo sempre con quella aggressiva di Paolo Stoppa – una grande inventrice di realtà scenica. Anche lei come la Maria Callas aveva l’arma segreta che ti mandava a casa a pensare» (La vacanza dei superstiti, cit., pp. 35-36).

L’amicizia occupa un posto centrale nella scala dei valori dell’attrice. Figlia di Renzo Ricci e nipote di Ermete Zacconi, nonché prima moglie di Vittorio Gassman, Nora Ricci è stata la grande amica della maturità: «L’ironia di Nora corrodeva tutto, era qualcosa d’incontenibile che esercitava anche, e talvolta soprattutto, sulle persone che amava. Mi ha risparmiato perché eravamo complici. Ho ancora in testa la sua voce (Nora è morta da più di trent’anni) al telefono, tutti i giorni, cominciava con “Franca” e c’era già dentro un sottinteso ironico. Chi avrebbe colpito? Aspettavo godendomela» (Bugiarda no, reticente, cit., p. 53). L’altro amico del cuore era Peppino Patroni Griffi («Le due vestali e il gran sacerdote»): «Questa era l’amicizia per noi: vivere, condividere, spiare, giudicare, un rapporto fluido, necessario, a conti fatti il più importante» (ivi, p. 54).

In palcoscenico l’attrice si sente a casa: «Il palcoscenico si rivela in tutta la sua verità quando c’è il pubblico, e t’insidia nella parte più fragile, il corpo. Anche immobile, ne senti la falsità. Il palcoscenico è un vecchio dispettoso, la sua amicizia la fa pesare. Diventerà poi nel tempo un amico meraviglioso. L’unica vera casa di un vero attore» (ivi, p. 31).

L’attrice, dice la Valeri, è una creatura dimidiata, che, mentre recita, si vede e si giudica, si compiace o si dispiace, si approva o disapprova, si studia, si ausculta, risente le sue intonazioni, se buone, le memorizza, se false, le cancella, in un incessante entrare e uscire dalla parte, una porta girevole nel cervello. Il teatro è un mondo illusorio, ma basta credere a quella illusione perché diventi più reale del reale: «Guardateli, stanno provando una commedia, magari anche mediocre, ma in quel momento si ritengono a un crocevia storico».

«“Quella battuta io la vedo così”».

«“Ma cara, non hai capito, è la chiave del personaggio”».

«“Ma per favore”».

«“Parliamone”».

«Beati loro; fuori ci sono altri problemi».

«E io faccio parte di questo mondo illusorio» (ivi, pp. 32-33).



 



 
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