Dopo
essersi aggiudicato il Premio della Giuria allultimo Festival di Cannes, il
regista francese originario del Mali Ladj Ly conquista quattro premi César (tra cui quello per il miglior
film) con I miserabili (2019). Ispirandosi allomonimo cortometraggio da
lui diretto nel 2017, Ly scomoda Hugo per titolare il suo lungometraggio
desordio: unopera di forte impatto ambientata nella periferia parigina di
Montfermeil, la stessa in cui si trova la locanda dei Thénardier ovvero gli
antagonisti principali del celebre romanzo.
Un
gruppo di ragazzini vestiti del tricolore francese si dirigono nel centro di
Parigi per festeggiare la vittoria della Coppa del Mondo 2018. Le riprese dei
personaggi si alternano a riprese dal vero, in una baraonda festosa che abbatte
ogni barriera religiosa o etnica. In un campo lungo con un fiume di persone che
scorre, allimprovviso e con lArc de triomphe sullo sfondo compare il
titolo del film producendo unintensa sensazione straniante.
Una scena del film
In
unopera che ben potremmo definire corale, aperta come una finestra su un mondo
mosso da violente forze centripete, vediamo interagire tra di loro personaggi liminari:
il boss del quartiere che si fa chiamare “il Sindaco”; un numero imprecisato di
adolescenti “senza tetto né legge”, per citare Agnès Varda; spietati gitani
di un circo; sfrontati liceali; comunità musulmane pronte a dispensare ai più
giovani dottrine fondamentaliste attirandoli con dolci e bevande. In questa
inestricabile matassa si inserisce il poliziotto Stéphane (Damien Bonnard),
fattosi trasferire a Montfermeil per stare più vicino al figlio. Il nuovo
arrivato entra a far parte della Brigata Anti-Criminalità composta dai colleghi
di pattuglia Chris (Alexis Manenti) e Gwada (Djebril Zonga). I
due rudi veterani lo mettono subito in guardia preannunciandogli che dovrà ogni
giorno combattere in uno Stato dentro lo Stato (ma senza lo Stato).
Ci
si ritrova così a fare i conti con le ripercussioni e le conseguenze dellemarginazione
sociale attraverso riprese dinamiche e vorticose, tra le quali spiccano quelle
girate con il drone di uno dei giovani protagonisti, testimone suo malgrado di
un evento spartiacque. Tutti odiano, senza distinzione di pelle, di ruolo
sociale o di età. In unintervista Ly, cresciuto proprio nel quartiere che
senza mezzi termini ha rappresentato, dichiara: «Sento la responsabilità di
illustrare la verità del mio mondo al pubblico, ma senza prendere posizioni.
Denuncio un problema, nella speranza che i politici facciano qualcosa».
Una scena del film
Ispirato
alle turbolente rivolte urbane francesi del 2005, a un certo punto citate da
Stéphane, il film si può idealmente suddividere in tre parti. Quella iniziale
consente allo spettatore di prendere confidenza con i personaggi e con il
contesto delle banlieues: palazzi popolari fatiscenti, rifiuti abbandonati
in parchi giochi diroccati dove si ritrovano buñueliani “figli della violenza”,
scritte sui muri contro polizia e governo a manifestare un sentimento dingiustizia.
I poliziotti effettuano controlli, ispezioni e perquisizioni, spesso rei di
soprusi e di abuso dufficio: uno di essi confida al nuovo arrivato che per non
essere sbranati sono costretti a mostrare i denti, giorno dopo giorno, quando
ogni dì può essere lultimo per tutti. Stéphan, ergendosi a moderno Jean
Valjean, tenta di comprendere tutti questi individui che scivolano lungo le pareti
di un imbuto sociale, attratti verso il centro e quindi in caduta libera verso
chissà dove.
La parte centrale della storia prende piede con il furto, compiuto dal giovane
Issa, di un cucciolo di leone, descritto dal capo spirituale musulmano del
quartiere Salah come una metafora della schiavitù. Grazie alla pratica della
condivisione su un social network del fatto, i tre agenti rintracciano
il colpevole la cui cattura innescherà una serie incontrovertibile di eventi solo
allapparenza destinati a concludersi con il tramonto del primo giorno,
definito dallo stesso Stéphane il più terribile della sua vita. È solo la
quiete prima di una fatale tempesta.
Una scena del film
Il
regista decide di non mettere in scena una rappresentazione manichea delle due
fazioni, polizia e abitanti del sobborgo parigino, bensì di dipingere tutti i
personaggi sia come vittime sia come carnefici. Ognuno pronto a mordere per non
essere morso. Ognuno Cicero pro domo sua. Ma la violenza genera altra
violenza, così come la vendetta porta a desolazione e a deserto buio. Il finale
sfugge a ogni didascalismo, lasciando attoniti e senza fiato. In soccorso allo
spettatore arriva la saggezza di Hugo: «Amici miei, tenete a mente questo: non
ci sono né cattive erbe né uomini cattivi. Ci sono solo cattivi coltivatori».