Era molto attesa questa Berlinale, per il cambio della
guardia dopo il ventennio di Dieter
Kosslick, unico dominus di una macchina organizzativa e artistica dalle
dimensioni sempre più ampie. Il festival di Berlino infatti negli ultimi anni
aveva sempre più allargato la sua funzione popolare coinvolgendo davvero tutta
la città ed estendendo le proposte ben al di là dei cinema di riferimento e
ampliando lofferta ben al di là dei generi tradizionali.
La nuova direzione ha sdoppiato le funzioni e affidato
allitaliano Carlo Chatrian la
responsabilità artistica e a Mariette
Rissenbeek quella organizzativa. È riuscita così a conservare lo smalto
dellappuntamento, nonostante una serie di impicci e calamità che avrebbero
fatto inorridire Napoleone che, come
è noto, a un generale bravo preferiva un generale fortunato. Nel loro piccolo
Chatrian e Rissenbeek hanno superato limpasse
della malasorte dando una bella dimostrazione di professionalità e tenacia.
Non ci siamo certo trovati davanti a unedizione
scintillante di capolavori ma certo questa settantesima edizione non ha tradito
lo spirito della manifestazione. Attenta anche a un “altrove” cinematografico
non sempre facile da reperire (e in questo le sezioni collaterali che hanno
portato a circa trecentocinquanta le proposte non sono certo meno istruttive di
quella principale), la manifestazione ha offerto comunque opere e temi di
notevole riflessione. Con un colpo dala finale che lha riportata ai vertici
di quellemozione artistica che altre volte era stata annebbiata da scelte
ideologiche. Giunto di soppiatto quando ormai la scelta dei premiabili si
riduceva a pure opzioni di gusto, è piombato nella sala, a tempo ormai quasi
scaduto, liraniano Sheytan vojud nadarad (There Is No Evil), ed è stato subito evidente
che la giuria aveva un compito facilissimo (o difficilissimo) e che Chatran sa
bene il suo mestiere (ampiamente consolidato nella lunga gestione del Festival
di Locarno).
Si sa, le giurie a volte sono bizzarre e quindi avrebbero
potuto passare sotto silenzio il bellissimo film, suscitando un, comunque
piacevole, polverone di dibattito. Oppure avrebbero potuto inserire il proprio
voto in unurna che poteva portare i segni di unindiscutibile unanimità. E poi
giocare garbatamente con gli equilibri di una distribuzione di premi alleggerita
dalla responsabilità maggiore. E così è stato con un meritato Orso dArgento al
solo film (Never Rarely Sometimes Always dellamericana
Eliza Hittman) che poteva tallonare
il competitore, ma troppo garbato, troppo sommesso, troppo “in minore” rispetto
alla forza morale ed espressiva delliraniano. Affidato allincantevole
interpretazione di Sidney Flanigan e Talia Ryder con un andamento apparentemente on the road, il romanzo di formazione (drammatica formazione poiché
le due adolescenti devono lasciare la Pennsylvania per consentire alla più giovane
il diritto allaborto) sottende con delicata fermezza un problema politico di
grande portata. Avremmo visto volentieri un premio per la miglior
interpretazione femminile dato alle due esordienti.
Ma nellequilibrio generale non pare certo sconveniente
il premio assegnato a Paula Beer,
protagonista di Undine di Christian Petzold, uno dei migliori
registi tedeschi, habitué della Berlinale dove non ha ancora trovato la carta
vincente. Anche lEstremo Oriente ha avuto il suo compenso con Domangchin yeoja in cui il coreano Hong Sang-soo
ha arricchito la cinematografia del suo paese con un film intimista, una
delicata storia femminile fatta di sfumature e toni sommessi. Lasciamo per
ultima lItalia che ha ipotecato dalla prima sera il premio per la miglior
interpretazione maschile di Elio Germano
in Volevo nascondermi di Giorgio Diritti e si è presa la gran
soddisfazione di vedere lOrso dArgento per la miglior sceneggiatura a Fabio e Damiano DInnocenzo, fratelli romani autodidatti, rivelati proprio
a Berlino due anni fa nella sezione panorama con il film desordio La terra dellabbastanza. Ora consacrati.
Arrivederci.
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