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Tragedia a sangue freddo

di Paolo Patrizi
  I Capuleti e i Montecchi
Data di pubblicazione su web 06/02/2020  

Non si era ancora in tempi di fondamentalismo belcantistico quando, nei tardi anni Sessanta, I Capuleti e i Montecchi si riaffacciarono in repertorio – prima alla Scala, poi all’Opera di Roma – grazie a un momentaneo interesse di Claudio Abbado. La temperie, anzi, era tutt’altra e non si concepivano (o, almeno, erano concepiti da pochi) un protagonista orbato delle sue prerogative tenorili e un “eroe amoroso” affidato invece a una voce femminile. Difatti, Abbado optò per un Romeo tenore, anziché mezzosoprano (ancorché di ottima consapevolezza stilistica: era il dimenticato Giacomo Aragall). E che il tenore voluto da Bellini come mero antagonista, cioè Tebaldo, fosse assai più mattatoriale e tenoreggiante dell’altro (si trattava del giovane Luciano Pavarotti) rientra nelle saporite contraddizioni che, talvolta, costellano gli spettacoli operistici.

D’altronde l’interesse di Abbado per questa partitura – non a caso rimasta l’unico titolo belliniano da lui affrontato – era davvero, come si diceva, momentaneo: né ci doveva credere fino in fondo, se si permise di ritoccare qua e là l’orchestrazione originale (anni dopo si dichiarò rammaricato per questo suo arbitrio). Altri tempi, insomma. Anzi un’altra era geologica, se pensiamo a quanto oggi, nel belcanto, si tenda invece a spostare l’orologio stilistico all’indietro, fino a ripensare in chiave di controtenore i contralti rossiniani en travesti: e se trasformare un mezzosoprano in tenore fu, da parte di Abbado, un’improprietà, tentar di ricondurre i contralti “maschili” di Rossini ai castrati del barocco è, semplicemente, un obbrobrio. Almeno per chi scrive.


Un momento dello spettacolo 
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dell'Opera di Roma

Oggi, mezzo secolo dopo (senza altri significativi precedenti: in questi decenni, dopo le recite abbadiane, dei Capuleti e i Montecchi si sono avute a Roma solo altre due messe in scena), il Teatro dell’Opera torna sul luogo del delitto. Con una produzione, cioè, che ovviamente rispetta le fisionomie vocali prescritte da Bellini, ma tutt’altro che incline a sedersi su quelli che nel frattempo, in tanti lustri di subentrata prassi esecutiva, sono diventati i luoghi comuni del belcanto (o forse, sarebbe meglio dire, del belcantismo: e dagli “ismi”, si sa, è sempre bene tenersi alla larga). Daniele Gatti, dunque, si colloca sulla breve ma autorevole scia di direttori – oltre ad Abbado, anche Maazel e Muti – che hanno creduto in una lettura “strumentale”, piuttosto che “vocale”, dei Capuleti e Montecchi: le reminiscenze rossiniane della Sinfonia perdono il loro retrogusto dé-jà vu, per andare alla ricerca di un’inquieta varietà dinamica; Giulietta riconquista la sua dimensione estatico-patetica grazie a un canto elusivo di ogni compiacimento da soprano leggero; i “da capo” hanno variazioni parche e, comunque, mai fini a sé stesse.

Per quanto I Capuleti restino uno dei titoli belliniani meno sperimentali e più legati a una grammatica musicale passatista, è palese, insomma, che l’attenzione del direttore converge invece sul Bellini rarefatto, disadorno, dove l’operista “della parola” prevale sull’operista “della musica”. L’intera partitura, in un certo senso, per Gatti non è che una lunga preparazione all’ultimo quadro: quella scena della cripta, con Romeo al cospetto del presunto cadavere di Giulietta, dove il recitar cantando travalica di molto il canto puro, e che non a caso i contemporanei di Bellini disamarono al punto di sostituirlo con l’omologa scena del Giulietta e Romeo di Vaccai. In questa prospettiva, il nocciolo della concertazione di Gatti sta, più che nelle arie, nei recitativi: trattati con una libertà ritmica che consente uno scavo della parola davvero inedito, dove sono i versi di Felice Romani – non gli accordi orchestrali che li sostengono – l’autentico vettore drammaturgico.

Autore di regia, scene, costumi e luci, Denis Krief firma un allestimento di un’asciuttezza speculare alla lettura musicale di Gatti, moderno all’apparenza (pistole e fucili prendono il posto della «tremenda ultrice spada»), ma in sostanza senza tempo: diciamo un generico Novecento norditaliano postbellico. Come sempre nei suoi spettacoli, si gioca la carta del minimalismo schematico ed elegante: bastano una grata o una croce a sancire il cambio di scena, è sufficiente una citazione visiva di De Chirico – pittore “belliniano”, furono sue le scenografie dei Puritani al primo Maggio Fiorentino – per tramutare da fisica a metafisica la faida tra Capuleti e Montecchi. E, rifacendosi al titolo dell’opera, è appunto dalle famiglie dei due sfortunati giovani amanti, più che dagli amanti in persona, che sembra partire la regia di Krief: raccontando una storia d’amore, sì, ma prima ancora di odio atavico e ottuso, con le due fazioni a tratti ridicolizzate da una recitazione quasi maccheronica imposta ai coristi.


Un momento dello spettacolo 
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dell'Opera di Roma

A fronte della tetragona ferocia degli adulti, ma pure dell’irrazionalità adolescenziale di Romeo, gli unici momenti psicologici paiono quelli di Giulietta: e il suo dialogare con il manichino con indosso il proprio abito nuziale è l’unico momento emotivo di uno spettacolo che, altrimenti, i sentimenti li osserva da lontano. Ne scaturisce una narrazione chiara e sempre fedele al dettato musicale, anche a costo di subirne le limitazioni: quando I Capuleti e i Montecchi – soprattutto nel quadro finale – s’inerpicano sulle vette del sublime, lo spettacolo di Krief raggiunge un’astrazione e una rarefazione di gran pregio, ma laddove Bellini si fa più convenzionale e scolastico (in quest’opera gli accade) pure la nitida semplicità della regia sembra convertirsi in banalità.

I cinque interpreti sono tutti ben a fuoco. Anche i ruoli minori di Capellio e Lorenzo, limitati a brani d’insieme e recitativi, qui colgono buon partito grazie all’estrema attenzione rivolta da Gatti ai recitativi stessi: Alessio Cacciamani non avrà risorse timbriche privilegiate, l’emissione di Nicola Ulivieri suona oggi un po’ slabbrata, ma l’uno e l’altro conoscono l’arte di modanare la parola e porgere la frase, dando vita a un padre padrone e a un prete libertario che non si dimenticano facilmente. Quanto all’emergente Iván Ayón Rivas, mostra – un po’ come il giovane Pavarotti con Abbado, anche se certo in tono minore – una voce forse troppo sfavillante per il negativo e perdente ruolo di Tebaldo. Dell’autentico tenore belliniano ha comunque, già da adesso, l’estrema fluidità del registro superiore: l’altro requisito irrinunciabile – l’immacolatezza del “legato” – magari si perfezionerà col tempo.

Restano, ovviamente, Romeo e Giulietta. Freschissima e androgina al contempo, Vasilisa Berzhanskaya patisce qualche disomogeneità tra affondi contraltili quasi mascolini e oasi assai più luminose a quota alta, ma all’interno di una raffigurazione sempre calzante: sul versante eroico non meno che su quello elegiaco. Mentre Mariangela Sicilia incarna una Giulietta pudica eppure sensuale, delicata senza essere evanescente, precisa tanto nei passi vocalizzati quanto nelle ampie arcate legate. Dolente come un’eroina di Gluck, ma con i fremiti di una fanciulla mozartiana. E capace di quegli incantamenti che sono tutti e soltanto di Bellini.



I Capuleti e i Montecchi



cast cast & credits
 
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Un momento dello spettacolo visto il 4 febbraio 2020 al Teatro dell’Opera di Roma

© ph Yasuko Kageyama-Teatro dell’Opera di Roma


 
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