Non si era ancora in tempi di
fondamentalismo belcantistico quando, nei tardi anni Sessanta, I Capuleti
e i Montecchi si riaffacciarono in repertorio prima alla
Scala, poi allOpera di Roma grazie a un momentaneo interesse di Claudio
Abbado. La temperie, anzi, era tuttaltra e non si concepivano (o, almeno,
erano concepiti da pochi) un protagonista orbato delle sue prerogative tenorili
e un “eroe amoroso” affidato invece a una voce femminile. Difatti, Abbado optò
per un Romeo tenore, anziché mezzosoprano (ancorché di ottima consapevolezza
stilistica: era il dimenticato Giacomo Aragall). E che il tenore voluto
da Bellini come mero antagonista, cioè Tebaldo, fosse assai più mattatoriale
e tenoreggiante dellaltro (si trattava del giovane Luciano Pavarotti)
rientra nelle saporite contraddizioni che, talvolta, costellano gli spettacoli
operistici.
Daltronde linteresse di Abbado
per questa partitura non a caso rimasta lunico titolo belliniano da lui
affrontato era davvero, come si diceva, momentaneo: né ci doveva credere fino
in fondo, se si permise di ritoccare qua e là lorchestrazione originale (anni
dopo si dichiarò rammaricato per questo suo arbitrio). Altri tempi, insomma. Anzi
unaltra era geologica, se pensiamo a quanto oggi, nel belcanto, si tenda
invece a spostare lorologio stilistico allindietro, fino a ripensare in
chiave di controtenore i contralti rossiniani en travesti: e se
trasformare un mezzosoprano in tenore fu, da parte di Abbado, unimproprietà, tentar
di ricondurre i contralti “maschili” di Rossini ai castrati del barocco
è, semplicemente, un obbrobrio. Almeno per chi scrive. Un momento dello spettacolo
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dell'Opera di Roma
Oggi, mezzo secolo dopo (senza
altri significativi precedenti: in questi decenni, dopo le recite abbadiane, dei
Capuleti e i Montecchi si sono avute a Roma solo altre due messe in
scena), il Teatro dellOpera torna sul luogo del delitto. Con una produzione,
cioè, che ovviamente rispetta le fisionomie vocali prescritte da Bellini, ma
tuttaltro che incline a sedersi su quelli che nel frattempo, in tanti lustri
di subentrata prassi esecutiva, sono diventati i luoghi comuni del belcanto (o forse,
sarebbe meglio dire, del belcantismo: e dagli “ismi”, si sa, è sempre bene
tenersi alla larga). Daniele Gatti, dunque, si colloca sulla breve
ma autorevole scia di direttori oltre ad Abbado, anche Maazel e Muti
che hanno creduto in una lettura “strumentale”, piuttosto che “vocale”, dei Capuleti
e Montecchi: le reminiscenze rossiniane della Sinfonia perdono il loro retrogusto
dé-jà vu, per andare alla ricerca di uninquieta varietà dinamica; Giulietta
riconquista la sua dimensione estatico-patetica grazie a un canto elusivo di
ogni compiacimento da soprano leggero; i “da capo” hanno variazioni parche e,
comunque, mai fini a sé stesse.
Per quanto I Capuleti
restino uno dei titoli belliniani meno sperimentali e più legati a una
grammatica musicale passatista, è palese, insomma, che lattenzione del
direttore converge invece sul Bellini rarefatto, disadorno, dove loperista “della
parola” prevale sulloperista “della musica”. Lintera partitura, in un certo
senso, per Gatti non è che una lunga preparazione allultimo quadro: quella
scena della cripta, con Romeo al cospetto del presunto cadavere di Giulietta,
dove il recitar cantando travalica di molto il canto puro, e che non a caso i
contemporanei di Bellini disamarono al punto di sostituirlo con lomologa scena
del Giulietta e Romeo di Vaccai. In questa prospettiva, il nocciolo
della concertazione di Gatti sta, più che nelle arie, nei recitativi: trattati
con una libertà ritmica che consente uno scavo della parola davvero inedito, dove
sono i versi di Felice Romani non gli accordi orchestrali che
li sostengono lautentico vettore drammaturgico.
Autore di regia, scene, costumi e
luci, Denis Krief firma un allestimento di unasciuttezza
speculare alla lettura musicale di Gatti, moderno allapparenza (pistole e fucili
prendono il posto della «tremenda ultrice spada»), ma in sostanza senza tempo:
diciamo un generico Novecento norditaliano postbellico. Come sempre nei suoi
spettacoli, si gioca la carta del minimalismo schematico ed elegante: bastano
una grata o una croce a sancire il cambio di scena, è sufficiente una citazione
visiva di De Chirico pittore “belliniano”, furono sue le scenografie
dei Puritani al primo Maggio Fiorentino per tramutare da fisica a
metafisica la faida tra Capuleti e Montecchi. E, rifacendosi al titolo dellopera,
è appunto dalle famiglie dei due sfortunati giovani amanti, più che dagli amanti
in persona, che sembra partire la regia di Krief: raccontando una storia damore,
sì, ma prima ancora di odio atavico e ottuso, con le due fazioni a tratti
ridicolizzate da una recitazione quasi maccheronica imposta ai coristi.
Un momento dello spettacolo
© ph Yasuko Kageyama-Teatro dell'Opera di Roma
A fronte della tetragona ferocia
degli adulti, ma pure dellirrazionalità adolescenziale di Romeo, gli unici
momenti psicologici paiono quelli di Giulietta: e il suo dialogare con il
manichino con indosso il proprio abito nuziale è lunico momento emotivo di uno
spettacolo che, altrimenti, i sentimenti li osserva da lontano. Ne scaturisce
una narrazione chiara e sempre fedele al dettato musicale, anche a costo di
subirne le limitazioni: quando I Capuleti e i Montecchi
soprattutto nel quadro finale sinerpicano sulle vette del sublime, lo spettacolo
di Krief raggiunge unastrazione e una rarefazione di gran pregio, ma laddove Bellini
si fa più convenzionale e scolastico (in questopera gli accade) pure la nitida
semplicità della regia sembra convertirsi in banalità.
I cinque interpreti sono tutti ben
a fuoco. Anche i ruoli minori di Capellio e Lorenzo, limitati a brani dinsieme
e recitativi, qui colgono buon partito grazie allestrema attenzione rivolta da
Gatti ai recitativi stessi: Alessio Cacciamani non avrà risorse
timbriche privilegiate, lemissione di Nicola Ulivieri suona oggi
un po slabbrata, ma luno e laltro conoscono larte di modanare la parola e
porgere la frase, dando vita a un padre padrone e a un prete libertario che non
si dimenticano facilmente. Quanto allemergente Iván Ayón Rivas,
mostra un po come il giovane Pavarotti con Abbado, anche se certo in tono
minore una voce forse troppo sfavillante per il negativo e perdente ruolo di
Tebaldo. Dellautentico tenore belliniano ha comunque, già da adesso, lestrema
fluidità del registro superiore: laltro requisito irrinunciabile limmacolatezza
del “legato” magari si perfezionerà col tempo.
Restano, ovviamente, Romeo e Giulietta. Freschissima e androgina al
contempo, Vasilisa Berzhanskaya patisce qualche disomogeneità tra
affondi contraltili quasi mascolini e oasi assai più luminose a quota alta, ma allinterno
di una raffigurazione sempre calzante: sul versante eroico non meno che su
quello elegiaco. Mentre Mariangela Sicilia incarna una Giulietta pudica
eppure sensuale, delicata senza essere evanescente, precisa tanto nei passi
vocalizzati quanto nelle ampie arcate legate. Dolente come uneroina di Gluck,
ma con i fremiti di una fanciulla mozartiana. E capace di quegli incantamenti
che sono tutti e soltanto di Bellini.
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