Antigone di Sofocle è una tra le
tragedie più rappresentate, riscritte e studiate nella storia del teatro
occidentale; penso alle versioni di Bertolt
Brecht e Jean Anouilh o alla
messinscena del Living Theater del 1967, per citare solo alcune delle più note.
La storia della principessa, figlia di Edipo, che sacrifica la propria vita per
offrire degna sepoltura al fratello, considerato nemico pubblico dalla città di
Tebe, per secoli è stata letta come un conflitto dialogico tra poli opposti: la
giustizia divina e la giustizia umana, la ragione del cuore e la ragione di stato, la donna e luomo, il figlio e il padre, e così via. E Antigone è stata
variamente interpretata come la paladina, talvolta “femminista” ante litteram, talaltra “partigiana”,
che in nome di un Bene assoluto si scontra con il rappresentante del Male,
Creonte.
Massimiliano Civica, in veste di regista e traduttore, fa un passo indietro
nei confronti del testo sofocleo, riavvolgendo anni e anni di interpretazioni
per tornare alla materia vergine e al suo contesto dorigine. Assistiamo perciò
a un cambio di prospettiva che sposta lattenzione dalla polarità tra bene e
male alleterno conflitto dellanimo umano costretto a muoversi nellincertezza
delle proprie scelte. Posta sotto questa luce la vicenda scioglie ogni nostra sicurezza
di spettatori, disattendendo felicemente ogni aspettativa.
Un momento dello spettacolo @ Duccio Burberi
Civica condivide con il
pubblico il proprio modus operandi nel
corposo libretto di sala. La sua lettura del testo originale è allinsegna del rispetto
filologico. La parola è protagonista: sussurrata, cadenzata, mangiata, gridata,
negata. Spogliata della retorica di cui spesso è investita la
tragedia antica, la recitazione degli attori si asciuga e quella di Antigone torna a essere soprattutto una
vicenda umana.
Nonostante Civica dichiari di prendere le distanze da qualsiasi riferimento alla
contemporaneità, i costumi di Daniele
Salernitano ci rimandano esplicitamente al secondo dopoguerra. Una
contraddizione fortemente voluta dal regista che riduce la politica ad “accessorio”
scenico: la divisa di Creonte che porta al collo il fazzoletto rosso dei partigiani,
la tenuta fascista del cadavere-fantoccio di Polinice. Ancora un segno di
rottura, dunque, nei confronti di una tradizione registica che vorrebbe Creonte
rappresentante dei regimi totalitari e Antigone il suo contraltare. Abbandonato
in scena nella penombra, quel corpo di pezza martoriato sembra ricordarci che,
qualsiasi schieramento politico rappresenti, non è altro che uno strumento
nelle mani della volontà dei singoli. Quanto valgono davvero le morti sulle
quali da sempre costruiamo battaglie ideologiche, morali, politiche, religiose
e sociali, solo per soddisfare il nostro desiderio di certezze?
Un momento dello spettacolo @ Duccio Burberi
Attoniti di fronte al
palcoscenico spoglio del Fabbricone di Prato non sappiamo più per chi
parteggiare; fatichiamo a comprendere le ragioni dellAntigone sulle righe di Monica Piseddu che, nella sua veste di
seta azzurra, in preda ad attacchi di risatine isteriche, non ci appare così
diversa dal confuso Creonte di Oscar De
Summa, forse epicentro vero
della vicenda. Le riflessioni di Civica sono supportate da accurate ricerche
bibliografiche, secondo cui per il pubblico ateniese del V secolo a.C. lo
scontro tra queste due figure rappresentava quello tra Oligarchia (Antigone) e
Democrazia (Creonte; cfr. Libretto
di sala).
Al fianco dei
protagonisti si muovono gli altri personaggi, sempre presenti sul palco. Il
Corifeo è interpretato da Marcello
Sambati, unico rappresentante di quel coro silente che il regista sembra
voler affidare a noi spettatori. Ismene, canonica incarnazione della “neutralità”
politica, è la prima a gettare un pugno di terra sul cadavere del fratello a
scena aperta; è Monica Demuru a
darle voce, così come la presta a Giocasta e allindovino Tiresia. Francesco Rotelli interpreta sia Emone
sia la guardia, caratterizzando questultima con un accento romanesco che
spezza la tensione tragica strappando qualche sorriso.
Un momento dello spettacolo @ Duccio Burberi
Gli attori si muovono allinterno
di un semplice rettangolo luminoso che sembra fungere da orchestra. Dietro di
esso e di fronte a noi, una panca di legno sulla quale si consuma il fuori
scena, costringendo gli attori a non uscire mai totalmente dalla finzione. Pochi
ma evidenti sono i gesti che accompagnano questo teatro tutto dattore: una
mano aperta che accarezza o nasconde la vista del cadavere, un indice puntato in
segno di giudizio e ancora il contatto fisico, umano tra i personaggi. La
tragedia si conclude in sospensione: Creonte non riesce a proferir parola
davanti allassemblea, ha la voce rotta e le corde vocali mute. Lultima
immagine prima del buio è quella di un uomo che non invidiamo ma non siamo più
in grado di giudicare, che ha distrutto la propria vita in nome di un ideale
comune, lasciandoci in eredità la sua perdita di centro e un dolore senza
riscatto.
Di fronte agli
spettacoli di Civica abbiamo spesso la sensazione di non trovarci di fronte al
punto di arrivo di una riflessione, ma soltanto a metà di un cammino la cui
meta va oltre la singola messinscena e sembra comprendere un discorso più ampio
che riguarda la poetica del regista. Non siamo però convinti, da spettatori, di
gradire fino in fondo la quantità di informazioni forniteci nel libretto di
sala. Il teatro ha davvero bisogno di essere così svelato?
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