Die Ägyptische Helena è
una scelta preziosa, dicevo. Con pochissime eccezioni, lo sono un po tutte le
opere di Strauss dagli anni 1920 in poi. Molti di questi capolavori sono
passati almeno una volta alla Scala, anche se in anni ormai lontani (
Die Schweigsame Frau,
Daphne,
Arabella,
Die Liebe der Danae
lultima volta dirette da
Wolfgang
Sawallisch in una
tournée della
Bayerische Staatsoper di Monaco nel 1992);
Die
Ägyptische Helena appartiene invece al ristretto manipolo di quelle che non
solo non erano mai state rappresentate a Milano, ma che sono state quasi del
tutto assenti dai palcoscenici nazionali: la prima e – fino a questa ripresa
milanese – unica produzione in Italia è infatti quella del Teatro Lirico di
Cagliari, arrivata solo nel 2001.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano
Lopera
è di grande interesse. Si tratta di uno dei progetti forse più ambiziosi della
collaborazione Strauss-Hofmannsthal: raccontare la contemporaneità attraverso
il mito. I due lavevano già fatto con
Die Frau ohne Schatten, ricorrendo a un simbolismo particolarmente complesso;
del resto, lavevano scritta prima di sapere quale fine disastrosa avrebbero
fatto gli imperi austriaco e tedesco in seguito alla Prima guerra mondiale
(lopera debuttò a Vienna nel novembre del 1919). Questa
Elena egizia è invece una storia tutta novecentesca. Menelao
(Menelas) è un reduce della (Grande) guerra; ne reca i traumi al punto che è
perseguitato da manie omicide e non è più in grado di distinguere il sogno
dalla realtà. Elena (Helena), sua moglie, tenta allinizio di stordirlo con i
filtri della maga Etra (Aithra), ma poi capisce che lunico rimedio per salvare
la situazione è affrontare i ricordi, portando il marito a intraprendere un
percorso (psicanalitico) di conoscenza e di guarigione.
Il
libretto ha per protagonisti eroi dellepica antica, che dietro i nomi omerici
nascondono personalità modernissime. Come una signora chic degli anni Venti, la maga egiziana Etra ha infatti in casa una
Conchiglia onnisciente (“die alles-wissende Muschel”), un apparecchio parlante
che trasfigura nellimmaginario fiabesco del mito lultimo ritrovato
tecnologico dellepoca: la radio. Strauss e Hofmannsthal pensarono addirittura
di usare il microfono (nel 1928 invenzione recentissima) per rendere ancora più
esplicita la massmediaticità della Conchiglia (ruolo affidato a un contralto),
rinunciandovi alla fine, ma solo per difficoltà di ordine pratico. Hofmannsthal
poi si oppose fin dallinizio con decisione alluso di «stracci allantica» per
i costumi, suggerendo invece di trarre ispirazione da quanto si vedeva sulle
copertine di «Vogue» (lo scrive in una lettera a Strauss). Dal canto suo
Strauss scrisse musiche che della modernità hanno le leggerezze e i turbamenti.
La musica di Menelao è infatti analoga a quella di Clitennestra nellElektra, violenta e dissonante, come i
deliri psicotici del protagonista; quella di Etra, frivola e capricciosa, come
le canzoni della contemporanea operetta (e della radio).
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano
Sven-Erich Bechtolf (regia) segue le
indicazioni del librettista e del compositore, e ambienta la vicenda di Elena e
Menelao in Egitto in anni Venti immaginosi. La casa di Etra è un enorme
apparecchio radiofonico
art-déco che
si illumina rivelando al suo interno la Conchiglia onnisciente, un personaggio
agghindato con un costume luccicante che rievoca
Metropolis di
Fritz Lang
(scene di
Julian Crouch; costumi di
Mark Bouman). Nel corso del primo atto
la radio si apre in un interno in stile Wiener Werkstätten (la casa di Etra).
La radio costituisce la scatola scenica anche nel secondo atto. Questo dovrebbe
svolgersi in un boschetto di palme sulle pendici dellAtlante, che qui diventa
invece una selva di enormi valvole dentro cui appaiono i vassalli di Etra
Altair e suo figlio Da-ud, essenziali per la “terapia” psicanalitica cui
Menelao si sottopone.
Dal punto di vista visivo la messinscena è di grande
effetto. Tuttavia Bechtolf non sfrutta tutte le potenzialità dellopera con
conseguenze sfavorevoli per lesito dello spettacolo. Etra, per esempio, è un
personaggio da operetta (unoperetta era quanto in origine sia Hofmannsthal e
Strauss volevano realizzare). È una giovane donna ricca e annoiata dalle lunghe
assenze e dalle infedeltà del marito. Le sue battute sono – nei versi non meno
che in musica – stizzite, impazienti, come emerge nelle rispostacce che dà alla
Conchiglia onnisciente (che secondo lei non dice la verità su dove sia il
marito), nei modi che riserva alle inservienti e agli elfi o nel compiacimento
di fronte a Elena, la donna più bella e pericolosa del mondo che allimprovviso
arriva nella sua casa «così ben arredata» (lo dice una didascalia del
libretto). Il regista non sottolinea questo aspetto comico del personaggio, cosicché
lo spettacolo prende una patina seriosa che ne appiattisce su un solo registro la
varietà. Questa tinta uniforme si coglie poi nella scelta di tenere i cori
degli elfi fermi nei palchi di proscenio, escludendoli di fatto dallazione.
Gli elfi sono fantasmi, creature della magia di Etra, è vero, ma la loro
presenza in scena a tormentare Menelao «come uno sciame di mosche fastidiose» (sempre
parole di Hofmannsthal) è essenziale sia come inserto buffo, per stemperare
latmosfera dopo il teso confronto tra Menelao e Elena – sia dal punto di vista
narrativo – perché sono la concretizzazione cattiva e ridicola dei deliri
delleroe omerico su cui pesano dieci anni di guerra troiana. Così, messi fuori
scena, non si capisce chi siano e perché intervengano; Menelao si agita in modo
inane senza nessun nemico apparente (quando invece dovrebbe farlo appunto contro
gli elfi) e nessuno ride, nemmeno quando Etra nellincantesimo che chiude
latto dovrebbe dire loro, mentre continuano a prendere in giro Menelao con risate
impertinenti, «volete piantarla adesso?», sbattendo un tacco sul pavimento
(cosa che qui Etra non fa) come avrebbero fatto con impazienza le maestre di
una volta verso una classe di alunni indisciplinati.
Un momento dello spettacolo
© Marco Brescia e Rudy Amisano
La
parte musicale è il coerente complemento di quella scenica. La direzione di
Franz Welser-Möst ha appiattito la
ricchissima scrittura orchestrale di Strauss verso un generico suono pesante
per lo più forte, senza mai dar respiro alla partitura, nonché coprendo
costantemente le voci nei passi in cui queste sono in registri ingrati (il che,
va detto, in questopera con alcuni personaggi succede spesso). Per chi scrive la
carriera di questo direttore resta un inspiegabile mistero, che questultima
prova rende ancora più oscuro. Mi chiedo perché la Scala abbia deciso di
affidare proprio a lui (che non aveva certo brillato nelle prove straussiane
precedenti, vedi l
Ariadne auf Naxos)
unopera così complessa ancora sconosciuta ai più, e che non credo con questa
direzione abbia guadagnato più ammiratori.
Dal
punto di vista vocale le cose vanno un po meglio. Eva Mei (Aithra) ha tutte le caratteristiche interpretative e
attoriali per rendere giustizia al ruolo; la sua voce però ha volume limitato,
in particolar modo nel registro grave. È un errore di Strauss aver scritto una
parte per soprano di coloratura ma con frequenti incursioni nella parte grave
della tessitura, dove queste voci non hanno, per ovvie ragioni, il volume
maggiore e il timbro più squillante. Anche grazie alla concertazione di
Welser-Möst, per gran parte del primo atto il personaggio faticava a far
arrivare la voce in sala. Lo stesso si può dire per la Conchiglia di Claudia Huckle: perfetta in scena, ma
sopraffatta anche lei dallorchestra. La protagonista Ricarda Merbeth (Helena) non ha avuto problemi analoghi; daltronde
la parte richiede un soprano drammatico molto simile a Elektra o a Brünnhilde.
In scena funziona bene; tuttavia la sua paletta espressiva è piuttosto limitata
e il personaggio ne soffre, perché non suona mai seduttiva o sarcastica o
affranta o coraggiosa nei confronti dei personaggi con cui interagisce, ma solo
forte o piano. Benissimo invece Andreas Schager
(Menelas). La sua è una delle tante parti impossibili dei tenori straussiani, e
Schager la affronta senza risparmio e senza timore, arrivando alla fine di un
ruolo tra i più temibili del repertorio in perfetta forma. È un attore
convincente, e fa quello che può con la sua parte musicalmente monolitica
(forse la principale debolezza della partitura). Molto bene anche Thomas Hampson (Altair). Il baritono
americano dalla lunga carriera ha una enorme classe musicale, benché sia stato
anche lui un po vittima dellorchestra spessa di Welser-Möst. Molto bene anche
Attilio Glaser (Da-ud) in una parte
che ha le stesse caratteristiche impossibili di quella di Menelao (ma senza la
sua lunghezza, ovviamente). Ottimi tutti i comprimari, così come i cori.
Alla prima buon successo per tutti e, in
particolare, per Andreas Schager.