Cè uno strano vento dellest che soffia recentemente sul Festival
di Cannes. Se lanno scorso la Palma doro era imprevedibilmente (ma
meritatamente) andata al giapponese Affari
di famiglia di Hirokazu Kore-eda, questanno è stata bissata
dallaltrettanto imprevedibile (e altrettanto meritata) vittoria di Parasite del coreano Bong Joon-ho, che finalmente arriva anche sui nostri
schermi. Verrebbe da pensare a unimprovvisa presa di coscienza dellimportanza
e della qualità del cinema proveniente da quella parte di mondo, e in
particolar modo dalla Corea che, dietro ai “soliti” Kim Ki-duk e Park
Chan-wook, rivela non solo una cinematografia e un sistema produttivo tra i
più vivaci e ricchi, ma soprattutto una serie di autori che meriterebbe una diversa
considerazione a livello internazionale. Riprova della vitalità del cinema coreano è proprio il lavoro di Bong Joon-ho che, dopo due buone,
anche se non esaltanti, esperienze americane (il bello, ma didascalico Snowpiercer e il non impeccabile Okja), torna a lavorare in patria (e con
Song Kang-ho, suo alter ego
sulla scena) recuperando la sua originaria e originale forza creativa. Una scena del film In Parasite la
famiglia Kim vive di espedienti in un seminterrato nei bassifondi di Seul, senza
alcuna prospettiva se non quella di sopravvivere ai propri fallimenti, fino a
che un amico offre al figlio la possibilità di fare da tutor per la lingua
inglese a una ragazzina dei quartieri alti. Qui il ragazzo scopre letteralmente
un mondo “altro” rispetto al suo: così radicalmente diverso da fargli subito pensare
a un “piano” che permetta, in modo più o meno ingannevole, di “inoculare” tutta
la sua famiglia allinterno della villa e della vita dei ricchi Park, estremo
tentativo di sfuggire a una situazione di predestinata indigenza. Ma il destino
è già indelebilmente impresso sulla loro pelle sottoforma di un odore acuto cui
sono ormai abituati e del quale non sono più consapevoli. Nel frattempo il loro
piano, apparentemente ben congegnato, si scontra con una realtà che non li vede
i soli ad aver pensato a questa possibilità… Compreso tra due inquadrature apparentemente identiche, ma in
realtà di senso diametralmente opposto,
Parasite mette in scena un particolare conflitto di classe che si colloca retoricamente nella carne viva di un contesto sociale che appare a tutti ineludibile e in cui nessuno si pone più il problema causato dalle enormi differenze dovute alla sua stratificazione. Una lotta sterile, priva di una vera finalità, dove lunica soluzione
possibile è di tipo privato, sostanzialmente egoistica, che non può che
degenerare in una grottesca guerra tra poveri, decisi a farsi “parassiti” di un
sistema solo per ottenere quelle che in fondo sono la tranquillità e la dignità
di un lavoro sicuro. Una scena del film Ma, alla fine, chi è il vero “parassita”? Il povero che si
introduce surrettiziamente nello spazio del ricco per procurarsi quello che
invece dovrebbe spettargli, oppure il ricco che in modo sfacciatamente
ostentato deve il suo stato – anche e soprattutto – a quelle stesse
disuguaglianze sociali? È proprio nella rappresentazione dello spazio in cui i
protagonisti vivono, si muovono, si amano, si nascondono, si “massacrano” che
questo interrogativo trova il suo senso più profondo. Allorizzontalità del
treno classista di Snowpiercer, Parasite sostituisce la più realistica verticalità
strutturale e urbanistica delle sue case, non più semplici sfondi metaforici o
oggetti tangibili di una differenza di classe, ma veri e propri soggetti attivi
nellazione, che interagiscono con i personaggi: li contengono, li limitano, li
occultano, li ostacolano, si ribellano, dando origine a un vero e proprio
processo di personificazione dove le case diventano “senzienti”. Soprattutto
lavveniristica e domotica villa dei Park (vittima dei “parassiti” ancor prima che
dei suoi stessi proprietari) da spazio scenico si trasforma nel principale
motore del conflitto narrativo, formale e visivo del film: una casa “parlante”
che diventa luogo straniante e retoricamente allegorico, dove il rigore
funzionale si confonde con lillogicità delle pulsioni emotive. Una razionalità
progettuale che contiene al suo interno lo scenario assurdo dellhorror e rende
inevitabile che proprio lì, con unimprovvisa, tarantiniana accelerazione
finale, tutta la storia collassi.
Una scena del film Quello di Bong Joon-ho è un cinema liquido, mercuriale, che
allinterno di uno stesso film attraversa generi e registri: qui spazia dal
comico, alla commedia, al con movie,
al thriller, fino allhorror e al gore
– specchio iperbolico e ancora una volta allegorico della vita – dove il
realismo viene raggiunto attraverso lapparente inverosimiglianza del racconto
e della sua messa in scena. Gli stessi personaggi appaiono pirandellianamente
in cerca di un autore che ne ridefinisca il rispettivo ruolo sociale, tanto da
essere ben contenti di poter recitare la parte prevista dal copione di quel
“piano” che si sono dati per mettere in atto il loro tentativo di riscatto,
salvo poi arrivare alla paradossale e contemporaneamente logica conclusione che
«solo se non hai un piano, niente può
andare storto». E questo al cinema come nella realtà.
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