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A rischio

di Giuseppe Gario
  A rischio
Data di pubblicazione su web 05/12/2018  

«Sembra necessario rimescolare le carte, su un tavolo anch’esso in movimento. In effetti l’incertezza circa l’avvenire del mondo non è mai stata così alta. All’incertezza cronica tipica dell’azione umana e del corso della storia si aggiunge ormai l’incertezza sul divenire fisico del mondo. I cambiamenti in corso nel sistema Terra, sintetizzati nella parola Antropocene, potrebbero sfociare in un notevole degrado della sua abitabilità, già in atto», scrive il filosofo Dominique Bourg in Une nouvelle terre (Bilbao, Desclée de Brouwer, 2018, p. 11). «Nell’Antropocene la minaccia non è più della categoria rischio. Anzitutto non si tratta più semplicemente di incertezza. Certo, si può sempre dire il solito di un ciclone particolarmente violento, un’ondata di calore o un’inondazione particolarmente micidiali, resi però possibili da processi di continuo degrado, come la modificata composizione chimica dell’atmosfera. Degradi di lungo corso che possono portare a infrangere soglie, e sfociare in un mutamento di stato del sistema Terra. Perciò, non si può più imputare a un evento un’origine dei danni che lo trascende. Danni legati a una evoluzione del sistema Terra per nulla circoscritta nel tempo o nello spazio». «La compensazione o l’indennizzo pecuniari sono consustanziali alla società del rischio. Ma non può esservi indennizzo o compensazione a fronte di danni di cui si ignora l’origine» (ivi, p. 60).

Così pure per la crisi del 2008. «Descrivere il contesto globale, restituirne la complessità e le sfide: è l’ambizione del nuovo libro di Adam Tooze, noto per i suoi lavori sull’economia del Terzo Reich. In Crashed. Comment un décennie de crise financière a changé le monde (Paris, Les Belles Lettres 2018), decifra i meccanismi del trauma dei subprime. E come l’onda di choc di dieci anni fa ha scosso l’Europa e favorito l’elezione di Donald Trump». «Prima di evocare i debiti sovrani del 2010, ricorda che la crisi del 2008 è almeno tanto europea che americana». «Detto altrimenti: le banche europee non sono state più virtuose, anzi, e questo la dice lunga sul mondo economico-finanziario di oggi. Se si esamina la meccanica delle crisi, deficit e avanzi dei paesi contano ormai meno dei bilanci delle grandi banche internazionali su cui gli stati non hanno alcuna presa». In Europa «le politiche dopo la crisi del 2008, incapaci di frenare ineguaglianze ed eccessi della globalizzazione, hanno screditato i partiti di centro-sinistra e centro-destra favorevoli al mercato, minando le basi delle democrazie liberali, precisa. Combinate con i timori legati all’immigrazione, alimentano la legittima collera dei popoli. Inoltre, la cattiva gestione della crisi ha accelerato il declino dell’Europa, mentre l’Asia si sviluppa. Perciò, come individuare i rischi che comprendiamo male? Come uscire dalla stagnazione? Queste domande, conclude lo storico, ricordano sorprendentemente quelle di fine guerra 1914-1918. Sono quelle delle grandi crisi della modernità» (M. Charrel, Comment la crise de 2008 a changé le monde, in «Le Monde», “Éco & Entreprise”, 11 ottobre 2018, p. 1). Un altro mutamento di stato. Perché?

«La Fair, Isaac & Co. di San Francisco ha dato il nome al punteggio FICO, importante ma spesso ignorato nella crisi subprime 2008. Assegnato a ogni famiglia americana e frutto delle riflessioni di due matematici applicati dello Stanford Research Institute, FICO ha dato aura scientifica alla valutazione del rischio di credito nel prestito per il consumo alle famiglie americane. È calcolato sui versamenti mensili delle famiglie, raccolti da tre grandi enti di credito privati in gigantesche banche dati. Va da 300 a 850 punti. Studi statistici avevano convinto i prestatori che 620 discriminasse tra mutuatari prime, con punteggio più alto e perciò solventi, e subprime, a rischio, con nota inferiore». «La scientificità dell’approccio confortava una visione culturale tipica degli USA, che la capacità delle famiglie di rimborsare i debiti non dipende da fattori economici globali, ma individuali, la forza di carattere del mutuatario. Questo a priori “psicologizzante” traspone la logica del quoziente intellettuale come misura del talento a quella della capacità di gestire un bilancio familiare, e quando l’epidemia di fallimenti mise in crisi la notazione, gli enti di credito preferirono alzare la soglia da 620 e 650. Si lasciava così intendere che il livello iniziale era stato mal calibrato, invece di riconoscere nello stato di salute generale dell’economia l’elemento determinante della capacità di rimborso delle famiglie». «Ora si riparla di FICO per l’annuncio nel 2019 di UltraFICO». «Risponde al desiderio del settore del prestito al consumo di aumentare il giro d’affari, benché il FICO medio familiare sia passato da 690 nel 2012 a 702 nel 2018». «Quali conclusioni trarne? Le notazioni quali quelle di Fair, Isaac & Co non servono tanto a misurare un rischio di credito pericoloso per l’economia, quanto a giustificare con razionalità apparente, matematica, il desiderio degli enti di credito di fare prestiti più o meno grandi, e sapere a chi» (P. Jorion, La notation du risque, faux nez de l’industrie bancaire, in «Le Monde», “Éco & Entreprise”, 6 novembre 2018, p. 1).

E tuttavia. «Nuovi trattamenti medici, lotta all’inquinamento, soccorso a popoli colpiti da catastrofi naturali, valutazione del limite di velocità a 80 km/h: in molte decisioni politiche si richiede di stimare il valore d’una vita, salvata o persa. Se può sembrare eticamente cinico e contestabile, un nuovo intervento pubblico non si fa più senza confrontarne i costi coi benefici attesi in termini di vite tutelate». «A fine anni Quaranta, per massimizzare i danni dei potenziali raid aerei sull’URSS, l’US Air Force si rivolge a un gruppo di ricerca della RAND Corporation. La proposta è di fare volare molti aerei poco costosi, ingannando le difese russe. Scontenti, i generali dell’Air Force rilevano che nei calcoli non v’è cenno alle vite dei piloti sacrificati! Ci vollero vent’anni alla RAND per risolvere il problema». «Il problema attirò l’attenzione dello specialista di modelli economici dei conflitti Thomas Schelling, Nobel 2005, e del suo studente Jack Carlson, ex pilota militare». «Allora fiorivano ovunque negli USA movimenti per la “sovranità del consumatore”. Ispirandovisi, propose che i cittadini stessi stimassero il valore della loro vita. Se non sapevano rispondere, si poteva comunque usare il metodo Carlson: chiedere a un campione di persone quanto pagherebbero, ad esempio, un airbag o un trattamento medico per diminuire dell’1% il rischio di morte e calcolare di conseguenza il valore da loro attribuito alla propria vita». «Se questo metodo fa discutere, perché riduce il valore sociale di una vita a una valutazione individuale del rischio di morte, è tuttavia ancora il più diffuso nelle decisioni pubbliche» (B. Cherrier, Calculer le prix d’une vie humaine, in «Le Monde», “Éco & Entreprise”, 1° ottobre 2018, p. 1).

E tuttavia. Il mercato si impone alla legge, come nel caso di Elon Musk e Brett M. Kavanaugh. Il primo dirige l’industria dell’auto elettrica Tesla ed è stato condannato dalla Securities and Exchange Commission, il gendarme della borsa americana, a un’ammenda di venti milioni di $ dollari e a lasciare la presidenza dell’azienda, rimanendone però direttore generale, per avere falsamente dichiarato di disporre dei fondi per ritirare la società dalla borsa, pena giudicata leggera e probabilmente senza strascichi penali. Il presidente della SEC «Jay Clayton ha giustificato la clemenza argomentando che le condanne a imprese e dirigenti alla fine colpiscono gli azionisti». «Presa alla lettera, l’affermazione di Clayton garantisce di fatto un’impunità di principio ai dirigenti d’impresa, poiché ogni accusa nei loro confronti avrebbe un impatto negativo sul valore di borsa dell’impresa. Il corollario è che ogni capo d’impresa ha interesse a personalizzare al massimo la sua conduzione». «In tutt’altro ambito è la nomina del giudice Kavanaugh alla Corte suprema; in una tribuna libera del 30 settembre sul “New York Times”, l’ex capo FBI James Comey scrive: “Viviamo in un mondo in cui un giudice federale in carica fa eco al presidente scagliandosi contro il comitato senatoriale che ne esamina la nomina, un mondo in cui il presidente è accusato di essere predatore seriale di donne, registrato mentre vanta la sua capacità di aggredirle e compara le accuse al suo candidato giudice alle fake news di cui si afferma vittima. La cosa più inquietante è che viviamo in un mondo in cui milioni di repubblicani e i loro rappresentanti pensano che tutto ciò non ha importanza”». «Non si sente qui l’eco, ma inversa, della giustificazione fornita dal presidente SEC? Basta sostituire “azionisti” a “repubblicani” e “Elon Musk” a “Brett Kavanaugh”». «In un quadro “alla Milton Friedman”, per cui unica responsabilità d’impresa è aumentare i profitti, il principio direttivo diverrebbe: “Se qualcuno la pensa come me, che infranga o no la legge importa poco”, e la nozione di interesse generale si dissolverebbe del tutto perché ognuno cercherebbe di impadronirsi di una parte del mercato dell’opinione, rivendicandone l’indifferenza a questa o quella parte della legge. La relativa impunità dei capi d’impresa è generalizzabile alla società civile?» (P. Jorion, Quand la loi du marché s’impose à la loi, in «Le Monde», “Éco & Entreprise”, 9 ottobre 2018, p. 1).

La legge del mercato dell’opinione si impone alla democrazia, alla giustizia e alla stessa economia di mercato, un ulteriore mutamento di stato in cui «non può esservi indennizzo o compensazione a fronte di danni di cui si ignora l’origine» (D. Bourg, Une nouvelle terre, cit., p. 60).

«Tira e molla» è la cifra dei nostri rapporti con l’UE (Mario La Torre, economista alla Sapienza di Roma a Radio3Mondo il 14 novembre 2018), da noi identificata con la Commissione, che però esegue le decisioni del Consiglio d’Europa: i capi di governo degli stati membri, i ministri per le politiche di settore, l’Eurogruppo per l’area euro. Già assistente dell’olandese Herman Van Rompuy durante la sua presidenza del Consiglio d’Europa, il filosofo e politologo Luuk van Middelaar «esamina la vulnerabilità e soprattutto la trasformazione caotica in un ambiente sempre più ostile in Quand l’Europe improvise. Dix ans de crises politiques, Gallimard 2018». «Questa crisi decennale porta una mutazione profonda: “l’Europa regolatrice”, in origine sotto la tutela della Commissione a Bruxelles, specialista di quote e norme, cede via via il posto a una “Europa di fatto”, più politica e pilotata dagli stati componenti». «I dirigenti europei si coalizzano per gestire le questioni più calde» (Ph. Ricard, La mutation de l’UE à l’épreuve des crises, in «Le Monde», “Éco & Entreprise”, 20 novembre 2018, p. 21).

Stiamo facendo i bulli con tutti gli altri stati europei, a rischio nostro di cittadini italiani e, in logica di mercato, a profitto di Lega e 5Stelle che si spartiscono il nostro stato e le sue ipotetiche finanze, e con bullismo anche reciproco (i più scaltri coi loro amori) occupano lo spazio mediatico e un’Italia disarticolata a nord con la Lega in maggioranza, alla pari in Centro, coi 5Stelle in maggioranza a Sud, in coerenza con la geografia clientelare (tasse, influenza, soldi).

Anche Brexit ci penalizza. «Per anni, i sovranisti hanno disegnato l’uscita dall’euro e dall’Ue come la più semplice delle prospettive. Solo pochi giorni fa, un esponente del governo mi spiegava privatamente che l’Italia potrebbe ambire a diventare come la Svizzera o Singapore, usando la maggiore flessibilità derivante dall’uscita per competere contro Francia e Germania. Sono le stesse argomentazioni che usavano politici britannici come Boris Johnson e David Davis prima di incartarsi in un negoziato da incubo», nonostante sterlina, bomba atomica, tre paradisi fiscali (F. Giugliano, Londra e Roma alla fiera delle illusioni, in «La Repubblica», 18 novembre 2018, p. 1). All’Italia che conta il governo giallo-verde offre pace fiscale dopo i condoni 2003 e 2009 di Berlusconi, spremitura festosa dell’euro nel declino neoliberale della nostra economia (niente tasse). In un sondaggio 2008 di Banca d’Italia, era «ampiamente diffusa l’opinione secondo cui il condono corrisponde ad un segnale di debolezza dello Stato (un italiano su due lo ritiene ingiusto e solo il 17% lo ritiene comunque necessario)» (in «Adnkronos», 10 giugno 2018).

La pensano così anche in Europa. Due condoni e una pace fiscali in quindici anni testimoniano il degrado del nostro stato che, dietro la foglia di fico giallo-verde, è la causa del nostro distacco non solo dall’UE, ma anche dall’Europa. L’anomalo rifiuto a contribuire secondo i nostri mezzi al sistema di beni comuni chiamato stato disarticola quest’ultimo in territori governati da chi li controlla di fatto e, in nome del territorio, può aprire la strada a nuove regioni (quelle ricche) a statuto speciale. Con le recenti elezioni è entrata in Parlamento una generazione giovane e forse innovativa. Intanto brancoliamo nel sequel volutamente confusionario degli eventi a trazione politica, e all’occhio disgustato e stanco si apre la vista di una sovranità latina che invita i capitali esportati (poi condonati e, se ritorna la lira, moltiplicati di valore) allo shopping nel temporary outlet del nostro patrimonio pubblico, già annunciato ufficialmente.

E della parte del nostro patrimonio privato messo sul mercato dall’eventuale crisi del credito e delle banche, ricche di titoli del nostro debito pubblico pencolante oltre la categoria del rischio: senza «indennizzo o compensazione a fronte di danni di cui si ignora l’origine» (Une nouvelle terre, cit., p. 60), nel nostro caso volutamente, vale a dire la renitenza fiscale sistematica e assecondata come in USA, ma senza dollaro e potenza.

Più sveltamente e concretamente, la sovranità latina riforma la giustizia contro i nostri diritti di cittadini e la sicurezza contro i diritti umani, creando sommerso e uno stato brado in deriva sudamericana. Lega e 5Stelle lo vendono a colpi di comunicazione come una start-up, in un’UE che è già innovazione di sistema sviluppata in decenni dalla vera start-up della Comunità Europea del Carbone e dell’Acciaio. Di questo stato brado, abbiamo ogni interesse a non pagare ulteriori rate, a cominciare dalla prossima nelle elezioni europee. Spendiamo meglio la sola sovranità che malvolentieri il mercato neoliberale ancora ci riconosce, quella del consumatore.






 
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