Giulio Cesare in
Egitto
inaugura alla Scala un progetto che vedrà in cartellone per tre stagioni
successive un titolo del primo Settecento. Anzi, per la precisione, tre opere
di Händel: Agrippina (2020), Ariodante
(2021) e questo Giulio Cesare a fare
da capofila.
Non
sono mancate le discussioni, preventive e concomitanti allo spettacolo. Inizio
con le preventive. In origine la Scala aveva scritturato Cecilia Bartoli per tutte e tre le opere (con Semele al posto di Agrippina).
Poi, adducendo il motivo dellimminente addio di Alexander Pereira alla sovrintendenza del teatro milanese (in
scadenza nel 2020), Bartoli ha cancellato la sua partecipazione. I biglietti
per Giulio Cesare nel frattempo erano
già stati messi in vendita, e questo ritiro ha da una parte generato la
delusione dei suoi fans, scatenando
dallaltra gli acerrimi nemici della diva, che notoriamente contano numerosi
adepti tra i loggionisti scaligeri.
Si
è comunque arrivati al debutto di Giulio
Cesare,
e le cose, per fortuna, sono andate bene. Con soddisfazione generale (e arrivo
così alle polemiche concomitanti) mista però a un filo di (immancabile!)
scontento. Sì, perché i sostenitori dellopera “barocca”, pur felici per i tre
titoli del repertorio prediletto, lamentano di essere tenuti a stecchetto, con
una dieta dissociata che alla Scala da una decina danni si compone di solo
Händel (Alcina nel 2009, Il trionfo del tempo e del disinganno nel
2015, Tamerlano nel 2017), con
qualche “goccia” di Monteverdi (Orfeo del 2008, Il ritorno di Ulisse in patria del 2011 e Lincoronazione di Poppea del 2014). La consapevolezza di essere
rientrati nel “grande giro” della lirica internazionale fa notare, in effetti,
lassenza dal teatro milanese di autori e opere che in altre piazze, europee ma
non solo, si vedono con una certa frequenza, se non con regolarità. A quando,
ci si domanda, unopera di Vivaldi?
o di Rameau? o, per osare
linosabile, di Lully?
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Nonostante
tutto, questo Giulio Cesare pare aver
placato gli animi. In primo luogo perché lo spettacolo è di primissimo livello.
La Scala lo ha affidato alle cure di Robert
Carsen, uno dei migliori registi dopera del momento. Diciamo subito che
non cè molto di nuovo nella sua lettura del capolavoro di Händel. Per Carsen
lEgitto antico è un vicino Oriente di oggi, dove girano molte armi e molti soldi.
Cesare è un moderno conquistatore occidentale; Tolomeo un sovrano del luogo,
ricco, tradizionalista e feroce, come da manuale (e come nel ritratto che ne
fanno sia il libretto sia la musica); e così via. Tutto, in modi e tempi
diversi, già visto in altre produzioni dellopera degli ultimi ventanni, da
quella di McVicar per Glyndebourne a
quella di Jones per la Bayerische
Staatsoper, giù giù fino allallestimento di Pizzech per Circuito emiliano.
Si
tratta, dunque, dellennesima declinazione dello scontro vittorioso tra
occidente buono e oriente cattivo? Sì e no. Sì, perché lopera concentra tutti
i comportamenti meno commendevoli in Tolomeo, che testo e musica costruiscono
come il personaggio malefico della vicenda – una visione manichea da cui Carsen
non prende le distanze. No, perché Cleopatra, parte dello stesso mondo del
fratello, non è prigioniera della tradizione. I suoi frequenti cambi di abito
sono lo specchio della sua capacità di adattamento alle diverse situazioni:
delle maschere utili per conquistare il potere, e con esso il proprio vantaggio
e quello del suo popolo. Lultima scena è decisiva: qui si capisce che Cesare è
in Egitto alla ricerca del petrolio, e Cleopatra, liberatasi di un Tolomeo
capace solo di fare la guerra, arriva finalmente a concludere con lui un
accordo. Sullo sfondo di un oleodotto fresco di inaugurazione, Cleopatra scopre
sotto labito orientale un perfetto tailleur
da businesswoman, e firma trattati
commerciali con il conquistatore. La pace è fatta per la gioia e la prosperità
di tutti – e pensare che bastava solo un cambio di abito, cioè di un habitus meno rigido, per ottenerla!
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Il
racconto scenico della storia, e la conduzione degli attori sono, come sempre
in Carsen, mirabili. Così come la sua capacità di gestire lazione in unopera
tutta fatta di recitativi e arie col “da capo”. Non cè un momento di
stanchezza o indecisione, sebbene non ci sia mai lansia dellazione a tutti i
costi, come spesso capita di vedere in allestimenti di registi spaventati dalle
forme e dai tempi drammatici dellopera (e dellopera seria settecentesca in
particolare). Numerose sono poi le gags
argute, le sottolineature ironiche che caratterizzano qui e là lo spettacolo,
col risultato di ottenere un ritmo scorrevolissimo (anche grazie al sacrificio
di qualche aria e di qualche “da capo”): lopera si segue senza intralci, cosa
che ha conquistato anche gli spettatori pregiudizialmente meno favorevoli al
“barocco”.
La
parte musicale ha riservato alcune interessanti sorprese. Alla Scala non si
erano visti mai tanti controtenori tutti insieme: ben quattro, di cui tre in
parti di prima sfera. Per un teatro dalle recenti frequentazioni
settecentesche, per di più autoproclamatosi tempio del cosiddetto belcanto
(concetto tanto sfuggente quanto costantemente invocato), si tratta di un
importante passo verso linternazionalizzazione. La prassi moderna di affidare
ruoli scritti per castrati a controtenori (che nel Settecento non cerano, o
almeno non cantavano nei teatri) in luogo di cantanti donne en travesti (come invece accadeva nel
Settecento) non cessa di sollevare discussioni. Che però si quietano quando gli
interpreti sono bravi, come sempre più spesso capita di sentire.
Bejun
Mehta (Giulio Cesare) è uno di
questi. È, per iniziare, un ottimo attore (come tutto il resto della
compagnia); come cantante è capace di dominare lampio spettro espressivo del
personaggio eponimo, che spazia dal furioso al patetico, dal galante al
meditabondo. Lemissione è morbida, i registri pieni. La coloratura è precisa,
anche se nei passaggi fioriti la voce perde un poco di volume; per questo Mehta
ottiene i risultati migliori nelle arie lente o in quelle dalle agilità
spianate (per esempio «Aure, deh, per pietà» o «Va tacito e nascosto»). Laltro
interprete è Christophe Dumaux, che veste
i panni di Tolomeo da una ventina danni, tanto da essere diventato tuttuno
col ruolo. Bello e imponente, ha il fisico giusto per il tiranno. Ha poi
facilità nelle colorature e un timbro malevolo che calza come un guanto al suo
personaggio e alla caratterizzazione che sa dargli. Philippe Jaroussky (Sesto) è lultimo del terzetto. Non si discute
la sua classe attoriale, raffinatasi in ormai due decenni di presenza sulle
scene. Il suo timbro chiaro si è rivelato perfetto per rendere lardore
fanciullesco e velleitario del personaggio, anche se la sua forma vocale,
almeno la sera della prima, non era delle migliori. Buona la prova di Luigi Schifano (Nireno), in un ruolo
senza arie.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Sul
versante femminile, ottima come sempre Sara
Mingardo (Cornelia). Il volume è limitato, ma questo non impedisce
allartista di emergere come interprete sopraffina. Se, a causa del taglio di alcuni
pezzi chiusi, lo spettacolo mette in luce solo il lato dolente del personaggio,
Mingardo ci fa scoprire di quante luci, di quante ombre e di quanti colori
questo dolore sia ricco. Resta poi la Cleopatra di Danielle de Niese. È unattrice strepitosa, e il ruolo, con tutta
la sua varietà di affetti e atteggiamenti, le sta a pennello, merito anche di
una lunga frequentazione (iniziata nel 2005 a Glyndebourne, acclamatissima
nello spettacolo di McVicar sopra ricordato). La musicista non è però costante:
il fraseggio e il lavoro sul testo musicale sono spesso generici; la voce poi è
ampia e corre bene nella sala del Piermarini,
ma le estremità dei registri non sono curate come dovrebbero. Ma sono dettagli
che non inficiano una prova teatrale eccellente: alla fine il pubblico, come
Giulio Cesare nella finzione, ne è rimasto letteralmente soggiogato. Completano
il cast Christian Senn (Achilla) che
rende bene lunica aria del personaggio, e lottimo Renato Dolcini (Curio), che non ha arie, ma si fa notare ugualmente
per presenza vocale e scenica.
Non
ha convinto del tutto la direzione di Giovanni
Antonini. I tempi sono scelti con cura, ma i colori e i fraseggi sono
generici, e lintonazione dei fiati a volte problematica (anche tenendo conto
dellimpossibilità per questi strumenti di suonare “pulito”, gli scrocchi dei
corni naturali in «Va tacito e nascosto» erano troppi). Certo, è difficile
giudicare la prova di un direttore alla testa di un ensemble come lOrchestra del Teatro alla Scala su strumenti
storici. Una produzione barocca ogni tanto è troppo poco perché la compagine
riesca davvero a crescere e anche solo ad avvicinarsi agli standard di gruppi orchestrali analoghi che da
decenni ormai anche in Italia hanno raggiunto livelli altissimi.
Grande successo per tutti; ovazione per Danielle de
Niese e Robert Carsen.
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