Con il tempo si cambia. Fino a ieri Les Pêcheurs
de perles
(o meglio I pescatori di
perle: la versione
italiana, tradotta nel nostro idioma e con finale apocrifo riaccomodato, ha
attecchito a lungo) era la classica “opera per cantanti” e, più spiccatamente,
per tenore-mattatore. Negli ultimi anni, invece, questa drammaturgia fragile e
questa partitura suggestiva in virtù della propria evanescenza è diventata
palestra di regie “dautore” (dal debutto operistico di Wim Wenders a
Berlino allo spettacolo del collettivo teatrale FC Bergman ad
Anversa, fino allattuale produzione torinese), mentre legotismo delle grandi
voci ha ceduto il passo alla disciplina dei cantanti-attori. Come sempre accade
nei rivolgimenti a trecentosessanta gradi, qualcosa si perde e qualcosa si
guadagna. Nel caso dei Pêcheurs, però, lassenza di spiccate personalità canore
anestetizza i cullanti ipnotismi melodici dellopera di Bizet e, al
contempo, scopre i suoi limiti drammatici, langustia della sua estetica
(quellorientalismo così in voga nella Francia degli anni Sessanta
dellOttocento), la natura di creazione in grado di commuovere una manciata di
generazioni, ma che, poi, si trasforma in mero documento. Un momento dello spettacolo © Edoardo Piva
La messa in scena di Julien Lubek e Cécile
Roussat a Torino parte da tale presupposto. Sempre autori a quattro mani e in toto (regia, scene, costumi,
coreografia, luci) dei loro spettacoli, figli di un teatro “visivo” che guarda
allarte del mimo e alla clownerie più trasfigurate, i due artisti francesi firmano
un allestimento oleografico allapparenza e concettuale nella sostanza: di
quelli che rischiano di piacere, o non piacere, proprio per i motivi opposti
alla loro autentica essenza. In effetti, il tratto naïf e coloratissimo dei tableaux con cui impaginano Bizet sembrerebbe
rinviare a un apsicologico bozzettismo. Ma tutto ciò, sulla distanza, si rivela
invece facciata di costume (lesotismo, di cui appunto questopéra-lyrique è figlia), cornice
culturale (il Flaubert di Salammbô, che sdoganò nella cultura alta lestetica
esotista, è contemporaneo ai Pêcheurs), “gioco” borghese (qui sono boccate di narghilè a
propiziare le rimembranze di Nadir e Zurga: il pensiero va agli oppiacei di cui
favoleggiava, negli stessi anni, Théophile Gautier). Pure le coreografie,
smaccatamente accademiche, contribuiscono a creare un sentore di elegante presa
di distanza: ed è significativo che – in tale demistificazione dun Oceano
Indiano da cartolina – le palme che sono sfondo e nascondiglio della grande
aria del tenore vengano sostituite da più domestiche, sebbene orientaleggianti,
finestre.
Un momento dello spettacolo © Edoardo Piva
Il teatro insieme corporeo e illusionistico di
Lubek e della Roussat, poi, ha ottimo gioco in una vicenda come I pescatori
di perle: una
storia, cioè, dove rimorsi, rimpianti e nostalgie hanno più peso di qualunque
azione e in cui gli eventi accaduti prima dellalzarsi del sipario sono più
stringenti, e non di poco, rispetto a quelli che vediamo in scena. Dunque la
duna, o isolotto, in cui i protagonisti convergono nei momenti più intimi (una
sorta di “primo piano” psicologico escogitato dalla coppia registica) cambia
colore con il variare degli stati danimo; lacqua non è la distesa oceanica,
ma una stilizzatissima pozza dove i personaggi, specchiandosi, riflettono le
proprie simmetrie e specularità; luso dei mimi e dei “doppi” risulta – una
volta tanto – assai congruo, consentendo flash-back sincronici rispetto
allazione “principale” e creando, al contempo, un corpo a corpo tra presente e
passato. Ma se per Zurga, ormai disposto a rinunciare al futuro, è il presente
a venire sconfitto, nel caso del tenore la vittoria sta nelloggi: sotto
questaspetto, il nostalgico fantasma di Leïla che fugge quando la Leïla in
carne e ossa si avvicina a Nadir è limmagine più “forte” dello spettacolo.
Dal podio, Ryan McAdams si affida a tempi
ampi e spaziosi, ma non estenuati, che permettono di dipanare con agio tutti gli
elementi della partitura senza stemperarli nel languore caro alla tradizione.
Emergono dunque laspetto cerimoniale e ritualistico; la dialettica musicale (debitrice
di Gounod) tra sacro e profano, dove i confini tra luno e laltro
sfumano e si giustappongono; e anche talune suggestioni protowagneriane – assai
addomesticate, certo – ineludibili nella musica francese dellepoca (la
tumultuosa première parigina del Tannhäuser precede di soli due anni i Pêcheurs). Lorchestra del Regio di
Torino risponde bene, forse sul piano dellarticolazione del fraseggio più che
su quello della qualità del suono. E ancor meglio fa il coro, tra laltro
impegnatissimo pure sul fronte attoriale. Un momento dello spettacolo © Edoardo Piva
Fa una certa impressione, per unopera del genere, parlare
solo in coda dei cantanti: ma rientra in quella rivoluzione copernicana di cui
si diceva allinizio. Lasciando che ciascuno riponga negli archivi della
propria memoria Caruso e Gigli, Di Stefano e Kraus,
va comunque detto che il Nadir di Kévin Amiel può contare su
fiati lunghissimi, capaci di agevolare non poco le sfumature conclusive di Je crois
entendre encore; e che la sua disomogeneità tra registro centrale (un po nasale e
compresso) e registro acuto (più libero e risonante) a tratti non è un bel
sentire, ma in un personaggio diviso in due – lì le ombre della contemplazione
retrospettiva, qui la solarità del desiderio – offre un plusvalore in termini espressivi.
Accanto a lui Pierre Doyen è
baritono fin troppo tenorile per peso e colore, che tratteggia uno Zurga non giganteggiante
nella nobiltà e nelle macerazioni dellanimo (per cui riporre negli archivi Giuseppe
De Luca e Gino Bechi), ma comunque corretto e
misurato: misura che, invece, difetta a Ugo Guagliardo, fin
troppo scabro e violento nel dar voce allinflessibilità sacerdotale di
Nourabad. A dominare, però, è il versante femminile del quadrilatero. Hasmik
Torosyan ha tutte le voci – del soprano di coloratura, del lirico, del
drammatico – che Bizet, di atto in atto, richiede al multiforme personaggio di
Leïla: dalle frasi ampie e legate del duetto damore agli slanci in tessitura
bassa dello scontro con il baritono. Tuttavia, se la cantante appare
duttilissima, linterprete risulta in primo luogo temperamentosa. Ed è
palpabile – né certamente è un difetto – che la Torosyan ha, sì, tutte le voci
di Leïla, ma il suo cuore batte in primo luogo per leroina innamorata, non per
la sacerdotessa ammaliante. Né tanto meno per la vittima sacrificale.
Spettacolo visto il 6 ottobre 2019 al Teatro Regio di Torino.
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