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Altre perle

di Paolo Patrizi
  Les pêcheurs de perles
Data di pubblicazione su web 08/10/2019  

Con il tempo si cambia. Fino a ieri Les Pêcheurs de perles (o meglio I pescatori di perle: la versione italiana, tradotta nel nostro idioma e con finale apocrifo riaccomodato, ha attecchito a lungo) era la classica “opera per cantanti” e, più spiccatamente, per tenore-mattatore. Negli ultimi anni, invece, questa drammaturgia fragile e questa partitura suggestiva in virtù della propria evanescenza è diventata palestra di regie “d’autore” (dal debutto operistico di Wim Wenders a Berlino allo spettacolo del collettivo teatrale FC Bergman ad Anversa, fino all’attuale produzione torinese), mentre l’egotismo delle grandi voci ha ceduto il passo alla disciplina dei cantanti-attori. Come sempre accade nei rivolgimenti a trecentosessanta gradi, qualcosa si perde e qualcosa si guadagna. Nel caso dei Pêcheurs, però, l’assenza di spiccate personalità canore anestetizza i cullanti ipnotismi melodici dell’opera di Bizet e, al contempo, scopre i suoi limiti drammatici, l’angustia della sua estetica (quell’orientalismo così in voga nella Francia degli anni Sessanta dell’Ottocento), la natura di creazione in grado di commuovere una manciata di generazioni, ma che, poi, si trasforma in mero documento.


Un momento dello spettacolo
© Edoardo Piva

La messa in scena di Julien Lubek e Cécile Roussat a Torino parte da tale presupposto. Sempre autori a quattro mani e in toto (regia, scene, costumi, coreografia, luci) dei loro spettacoli, figli di un teatro “visivo” che guarda all’arte del mimo e alla clownerie più trasfigurate, i due artisti francesi firmano un allestimento oleografico all’apparenza e concettuale nella sostanza: di quelli che rischiano di piacere, o non piacere, proprio per i motivi opposti alla loro autentica essenza. In effetti, il tratto naïf e coloratissimo dei tableaux con cui impaginano Bizet sembrerebbe rinviare a un apsicologico bozzettismo. Ma tutto ciò, sulla distanza, si rivela invece facciata di costume (l’esotismo, di cui appunto quest’opéra-lyrique è figlia), cornice culturale (il Flaubert di Salammbô, che sdoganò nella cultura alta l’estetica esotista, è contemporaneo ai Pêcheurs), “gioco” borghese (qui sono boccate di narghilè a propiziare le rimembranze di Nadir e Zurga: il pensiero va agli oppiacei di cui favoleggiava, negli stessi anni, Théophile Gautier). Pure le coreografie, smaccatamente accademiche, contribuiscono a creare un sentore di elegante presa di distanza: ed è significativo che – in tale demistificazione d’un Oceano Indiano da cartolina – le palme che sono sfondo e nascondiglio della grande aria del tenore vengano sostituite da più domestiche, sebbene orientaleggianti, finestre.


Un momento dello spettacolo
© Edoardo Piva

Il teatro insieme corporeo e illusionistico di Lubek e della Roussat, poi, ha ottimo gioco in una vicenda come I pescatori di perle: una storia, cioè, dove rimorsi, rimpianti e nostalgie hanno più peso di qualunque azione e in cui gli eventi accaduti prima dell’alzarsi del sipario sono più stringenti, e non di poco, rispetto a quelli che vediamo in scena. Dunque la duna, o isolotto, in cui i protagonisti convergono nei momenti più intimi (una sorta di “primo piano” psicologico escogitato dalla coppia registica) cambia colore con il variare degli stati d’animo; l’acqua non è la distesa oceanica, ma una stilizzatissima pozza dove i personaggi, specchiandosi, riflettono le proprie simmetrie e specularità; l’uso dei mimi e dei “doppi” risulta – una volta tanto – assai congruo, consentendo flash-back sincronici rispetto all’azione “principale” e creando, al contempo, un corpo a corpo tra presente e passato. Ma se per Zurga, ormai disposto a rinunciare al futuro, è il presente a venire sconfitto, nel caso del tenore la vittoria sta nell’oggi: sotto quest’aspetto, il nostalgico fantasma di Leïla che fugge quando la Leïla in carne e ossa si avvicina a Nadir è l’immagine più “forte” dello spettacolo.

Dal podio, Ryan McAdams si affida a tempi ampi e spaziosi, ma non estenuati, che permettono di dipanare con agio tutti gli elementi della partitura senza stemperarli nel languore caro alla tradizione. Emergono dunque l’aspetto cerimoniale e ritualistico; la dialettica musicale (debitrice di Gounod) tra sacro e profano, dove i confini tra l’uno e l’altro sfumano e si giustappongono; e anche talune suggestioni protowagneriane – assai addomesticate, certo – ineludibili nella musica francese dell’epoca (la tumultuosa première parigina del Tannhäuser precede di soli due anni i Pêcheurs). L’orchestra del Regio di Torino risponde bene, forse sul piano dell’articolazione del fraseggio più che su quello della qualità del suono. E ancor meglio fa il coro, tra l’altro impegnatissimo pure sul fronte attoriale.


Un momento dello spettacolo
© Edoardo Piva

Fa una certa impressione, per un’opera del genere, parlare solo in coda dei cantanti: ma rientra in quella rivoluzione copernicana di cui si diceva all’inizio. Lasciando che ciascuno riponga negli archivi della propria memoria Caruso e Gigli, Di Stefano e Kraus, va comunque detto che il Nadir di Kévin Amiel può contare su fiati lunghissimi, capaci di agevolare non poco le sfumature conclusive di Je crois entendre encore; e che la sua disomogeneità tra registro centrale (un po’ nasale e compresso) e registro acuto (più libero e risonante) a tratti non è un bel sentire, ma in un personaggio diviso in due – lì le ombre della contemplazione retrospettiva, qui la solarità del desiderio – offre un plusvalore in termini espressivi.

Accanto a lui Pierre Doyen è baritono fin troppo tenorile per peso e colore, che tratteggia uno Zurga non giganteggiante nella nobiltà e nelle macerazioni dell’animo (per cui riporre negli archivi Giuseppe De Luca e Gino Bechi), ma comunque corretto e misurato: misura che, invece, difetta a Ugo Guagliardo, fin troppo scabro e violento nel dar voce all’inflessibilità sacerdotale di Nourabad. A dominare, però, è il versante femminile del quadrilatero. Hasmik Torosyan ha tutte le voci – del soprano di coloratura, del lirico, del drammatico – che Bizet, di atto in atto, richiede al multiforme personaggio di Leïla: dalle frasi ampie e legate del duetto d’amore agli slanci in tessitura bassa dello scontro con il baritono. Tuttavia, se la cantante appare duttilissima, l’interprete risulta in primo luogo temperamentosa. Ed è palpabile – né certamente è un difetto – che la Torosyan ha, sì, tutte le voci di Leïla, ma il suo cuore batte in primo luogo per l’eroina innamorata, non per la sacerdotessa ammaliante. Né tanto meno per la vittima sacrificale.

Spettacolo visto il 6 ottobre 2019 al Teatro Regio di Torino



Les pêcheurs de perles
Opéra lyrique in tre atti


cast cast & credits
 
trama trama



Un momento dello spettacolo visto il 6 ottobre 2019 al Teatro Regio di Torino
© Edoardo Piva

 
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