Tra
gli sconfinati altipiani tibetani una donna si trova stretta tra la morsa della
ferrea legge cinese e il peso delle tradizioni religiose. Già madre di tre
figli, si scopre nuovamente incinta: se non abortisse la sua famiglia di poveri
pecorai incorrerebbe nelle pesanti sanzioni che regolano la natività in Cina.
Quel bimbo in grembo rappresenta però la reincarnazione del genero appena morto;
e il marito Drolkar (Jinpa) teme per
la sua anima di fronte alla possibilità di non farlo nascere.
La
scelta di Darje (Sonam Wangmo)
rappresenta il cuore drammatico di Qi qiu
(Balloon), unopera ricca di lirismo, che si prende i suoi tempi per
raccontare con la consueta delicatezza orientale un mondo distante, aspro e
solitario. Il regista Pema Tseden è anche
lautore di un ciclo di romanzi sul Tibet di questi ultimi ventanni: una terra
ancorata alla tradizione ma attraversata dalle continue trasformazioni che la
modernità pretende e che nel film diventano motivo sia di riso sia di pianto.
Tseden
struttura la storia su due coppie di poli opposti. Da un lato la citata
dicotomia tra la tradizione buddhista e le leggi civili cinesi: due grandi
pilastri attorno cui si muovono, sempre più scomodamente, i personaggi i quali
però non ne mettono mai in discussione limportanza e la verità intrinseca (come
dimostra la scelta finale di Darje). Dallaltro lato cè la contrapposizione tra
luniverso maschile, di tipo patriarcale, reso metaforicamente dalla figura
dello splendido montone noleggiato per ingravidare le pecore, e luniverso
femminile, diviso tra chi, come la triste e bella zia Ani (Yangshik Tso), si è dovuta fare monaca per espiare un antico errore
damore e chi, come Darje, si trova appunto a dover compiere una tragica scelta
per il bene suo e della famiglia.
Una scena del film
Anche
se il film vuole essere uno spaccato del Tibet contemporaneo, indubbiamente
laspetto lirico prevale su quello della “denuncia”: spiccano i bellissimi
notturni realizzati dal maestro della fotografia Lu Songye e le interpretazioni del cast, da cui emerge il carattere
discreto, pacato eppure pieno di vita dei tibetani. Il tutto con un tocco dironia
leggera che attraversa il film a partire dalla prima scena, in cui Drolkar
scopre che i bambini hanno preso i suoi preservativi per farne dei palloncini. A
chiudere il film è proprio limmagine di un palloncino rosso che si libra pigro
nel cielo, simbolo, secondo le parole del regista a fine proiezione, di una
vita ォinsostenibilmente leggera, presa tra i venti e le cui azioni si diramano
in imprevedibili conseguenzeサ.
Affidandosi
a un registro classico, Tseden ci consegna unopera stilisticamente precisa
che, pur muovendosi quasi sempre dentro gli stilemi del genere, riesce a
mantenere viva una propria genuinità.
* Dottorando in Storia dello spettacolo presso lUniversità di Firenze. Impaginazione di Antonia Liberto, dottoranda in Storia dello spettacolo presso lUniversità di Firenze.
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