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Naufragar m’è dolce in questo mare

di Nicola Rakdej
  Martin Eden
Data di pubblicazione su web 29/09/2019  

Dopo svariati lavori nel genere documentaristico già orientati verso un’interessante, variopinta fusione dei metodi di rappresentazione e narrazione, Pietro Marcello è approdato sulle rive della finzione con Martin Eden, presentato alla 76° edizione della Mostra del Cinema di Venezia e tratto dall’omonimo romanzo di Jack London. Come ci si poteva aspettare, avendo trasferito l’ambientazione dell’opera nel “Novecento” italiano, la trasposizione del regista casertano è più una libera interpretazione delle parole universali (e in parte autobiografiche) di London, che qui però acquistano un’ulteriore apertura.

Martin Eden (Luca Marinelli) è un marinaio povero e analfabeta che vive in simbiosi col porto di Napoli, non-luogo romantico (nel senso più letterario possibile) che accoglie in grembo chi tira a fare qualche soldo per arrivare con tranquillità a fine giornata. Non ancora influenzato dagli eventi di un’Italia sull’orlo del tumulto, Martin si mescola con questa materia umana senza provare ad affacciarsi in un altrove. Un giorno, dopo aver salvato un ragazzo da una rissa, ne conosce l’aristocratica famiglia e soprattutto la sorella, Elena Orsini (Jessica Cressy), che irradia bellezza e cultura nella sicurezza dell’immensa reggia in cui vive. L’amore a prima vista spinge la curiosità del marinaio verso una delle occupazioni più nobili dell’essere umano, la letteratura: da che viaggiava per i mari, inizia a navigare dentro di sé e dentro i piaceri della pagina scritta, arrivando poi ad aprire gli occhi e il cuore verso la collettività e i suoi problemi. In seguito, grazie al sostegno della sua premurosa affittuaria e ai preziosi consigli di un burbero mentore, comincia a scrivere lui stesso, ispirandosi alle esperienze del suo recente e rinnegato passato. Ma più si avvicina a toccare il successo, più il sogno muta in disincanto, malattia, noncuranza e senso di colpa.

Una scena del film
Una scena del film
© Biennale Cinema 2019

C’è una profonda, affascinante connessione tra la recitazione di Marinelli (Coppa Volpi) e l’interpretazione della Storia (se la Storia si può interpretare) che Marcello ha aggiunto al racconto di London. Mentre l’attore trasforma a proprio piacimento il linguaggio del suo personaggio, storpiandone prima la grammatica e poi il suono della voce (come a significare una spaccatura nel suo animo tale da riflettersi sul suo apparire), così il regista plasma il Novecento italiano affinché sembri collassare intorno e dentro Napoli. Il film inizia in un non ben definito periodo tra le due Guerre, al sorgere delle politiche di massa; significativa la sequenza in cui Martin parla di individualismo a un raduno di operai “sordi” e insoddisfatti, in questo simile (ma contrario negli intenti) ai proclami del giovane Mussolini che Bellocchio ci fa vedere in Vincere. Poi, quando il marinaio si lascia naufragare nel mare del sapere, ponendosi in una decadente e nichilistica sfasatura nei confronti della realtà (percepita come arretrata e insalvabile), ecco che nella rappresentazione dell’Italia subentrano elementi cronologici discordanti con quanto mostrato in precedenza: dalle automobili anni Settanta alle camicie nere di epoca fascista, dai mobili di metà secolo agli edifici in stile anni Venti, dalla televisione allo scoppio della guerra.
 
Una scena del film
© Biennale Cinema 2019

Davanti agli occhi stanchi e incavati di Luca Marinelli si sussegue tutto il “secolo breve” (italiano, ma non solo), cornucopia di eventi tragici che paiono essere stati inevitabili nonostante i migliori ideali e le più belle parole. A differenza di Pulcinella, che in Bella e Perduta (2015) viaggiava spazialmente per le “rovine” del belpaese, Martin ingloba la storia d’Italia attraverso la mente e il corpo, fino a prosciugarsi da qualsiasi entusiasmo per la vita; lui che con la sua professione, esattamente come la maschera napoletana dell’Arte, si è ritrovato intermediario tra i vivi e i morti, tra i ricchi e i poveri, tra i padroni e i lavoratori. Ed è nella risoluzione di questo doloroso senso di inadeguatezza verso un compito così gravoso (ma nobile) che Martin Eden gioca la sua riuscita. 

Come un elegante prestigiatore di fine Ottocento, Marcello fa apparire sullo schermo i frammenti fantasmagorici di un cinema perduto, metafora di un incanto da riscoprire quando si rischia di farcelo scivolare dalle mani. In linea teorico-estetica con i misteri del (nuovo) realismo magico di Alice Rohrwacher (Le Meraviglie, 2014; Lazzaro Felice, 2018), il regista fa del cinema uno strumento per addolcire i tumulti della narrazione e, consequenzialmente, per ricordarci la nostra innata capacità di creare sogni e bellezza anche laddove non sembra più possibile. Così, indipendentemente da quello che è stato e che potrà essere, Martin Eden non perde mai di vista le radici del suo personaggio-autore e riprende la via per l’infinità del mare con un semplice, romantico (sempre nel senso più letterario possibile) messaggio di speranza: il sapere non deve allontanarci dagli altri e da noi stessi, bensì è l’arma migliore che abbiamo per combattere le derive peggiori dell’animo umano. Perché, in fondo, dovremmo sempre tenere a mente quella magnifica folgorazione con cui London chiude il “suo” Martin Eden: «nell’istante in cui seppe, cessò di sapere». 

E sarà inevitabilmente così… per ciascuno di noi.



Martin Eden
cast cast & credits
 



La locandina del film
Martin Eden 
è disponibile su Chili

 
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