Noah Baumbach non è estraneo alla pratica di offrire la propria vita alla voracità della macchina cinematografica. In occasione delluscita de Il calamaro e la balena (2005), film che gli valse lOscar per la migliore sceneggiatura originale, non ebbe remore a dichiarare che si era ispirato alla sua infanzia e, in particolare, al divorzio dei genitori. Mentre quella storia era raccontata dal punto di vista dei figli, in Marriage Story locchio si sposta sui protagonisti della decisione e sulla natura tragicomica della burocrazia statunitense. Ispiratosi questa volta al divorzio con lattrice Jennifer Jason Leigh, il regista di Brooklyn racconta il percorso di autodistruzione della californiana Nicole (Scarlett Johansson) e del newyorkese Charlie (Adam Driver), due giovani artisti (lei attrice, lui regista teatrale) che da un idillio amoroso e creativo passano a un girone infernale di pratiche, vendette e avvocati senza scrupoli.
Più in linea con la cupezza di stampo europeo de Il matrimonio di mia sorella (2008) che con il solare ottimismo del dittico con Greta Gerwig formato da Frances Ha (2012) e Mistress America (2015), la pellicola è un velato omaggio allintramontabile capolavoro di Ingmar Bergman Scene da un matrimonio (1973). Levento scatenante è identico: a causa dellimprovviso tradimento di Charlie, in Nicole si innesca un conglomerato di ripensamenti sul suo ruolo di moglie, madre e artista. Ma alla complessità del regista svedese, Baumbach preferisce una struttura più immediata, che tuttavia fatica a mantenersi in perfetto equilibrio per la durata del film.
Una scena del film © Biennale Cinema 2019
Attraverso un classico montaggio parallelo, la sequenza iniziale del film racconta in voice over la vita matrimoniale della coppia, prima dal punto di vista di Charlie, poi da quello di Nicole: un accumulo di gesti e situazioni comuni («Nicole ama farsi il tè in qualunque ora e lasciare le tazze non bevute in giro per casa») che descrivono con genuino sentimento i due caratteri, tanto da ricordare lindimenticabile apertura del film Pixar Up (2009). Da qui, in concomitanza con linizio dei litigi fra i due protagonisti, il film si mantiene costante su un doppio binario che solo in certe occasioni si incrocia (negli uffici per il patteggiamento, nelle aule di tribunale) o si “sdoppia” allinterno di uno stesso spazio (ad esempio nella scena in cui un cancello divide i due ex amati).
La regia di Baumbach separa i protagonisti anche nei movimenti in una opposizione che riflettele differenze stereotipate tra la West Coast e la East Coast («a Los Angeles le persone stanno sedute, mentre a New York camminano»): da un lato la sbadataggine di Charlie lo destina a un moto continuo contro il tempo, dallaltro linsicura Nicole è “immobile”, rinchiusa nel conforto della casa natale. Purtroppo è proprio in questa dialettica che si ha lunico vero difetto del film. Se sulla carta (e sulle locandine) lidea è quella di dare lo stesso peso ai due protagonisti, a conti fatti si ravvisa uno sbilanciamento nei confronti del personaggio di Driver, che per la buffa comicità delle situazioni in cui incorre (si pensi allAdam Sandler del precedente The Meyerowitz Stories) riesce più facilmente a entrare in empatia con lo spettatore. Persino legocentrico avvocato di Nicole, interpretato da Laura Dern, fa pendere la bilancia dal lato del suo avversario, sebbene in più di unoccasione offra una piacevole ventata di aria fresca nellodissea burocratica.
Adam Driver e Noah Baumbach
Come in molte altre opere di Baumbach il vero punto di forza sono la scrittura e il casting. Marriage Story contiene gli inconfondibili tratti delle sue sceneggiature: dai dialoghi tipicamente alleniani (il chiacchiericcio della compagnia teatrale di Charlie), alle assurde dinamiche da screwball comedy (limbranata famiglia di Nicole), passando per la ruvidità dei suoi sonuvabitches (letteralmente “figli di puttana”) e per lesasperata verbosità degli scontri. Ed è nel fiume di parole, precise e taglienti come unesperta coltellata, che Adam Driver e Scarlett Johansson danno il tutto e per tutto, mostrando una ricchezza di sfumature emotive come forse mai prima; esemplare è la commovente sequenza in cui, caricati dal “sangue versato” in tribunale, si azzannano in un battibecco di considerazioni sul passato e sul presente, in una variopinta escalation dintensità e rabbia che lascia senza fiato.
Di certo non stiamo parlando di una delle opere più complete del regista di Brooklyn (siamo lontani dallessenzialità di film come Frances Ha, 2012, e Giovani si diventa, 2014, ma a Marriage Story va riconosciuto il merito di aver descritto lumanità che cè dietro un processo tanto complicato come il divorzio, soprattutto quando implica il dramma dei figli ancora incapaci di comprenderne le motivazioni. Del resto, non si può negare al film il valore aggiunto del coinvolgimento emotivo del regista: quel tocco di intimità che molti altri colleghi, magari con intenti simili, non sarebbero riusciti ad ottenere. *Dottore in Scienze dello spettacolo presso l'Università di Firenze.
Impaginazione di Mani Naeimi, dottorando in Storia dello spettacolo presso lUniversità di Firenze
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