È, forse,
il più bel ritratto di Ilaria Occhini
ed è stato scritto da unaltra donna, Adele
Cambria, su «Paese Sera» del 3-4 ottobre 1960: «E rialza il mento con fierezza,
come si disponesse a posare per Piero
della Francesca. E certo, la linea della nuca, sotto il peso dei capelli
chiari, annodati in alto, e il bel profilo esatto, la fanno somigliare ad una
donna del Rinascimento: se non fosse per gli occhi, grigioverdi, ma non teneri,
ed anzi troppo attenti e senza emozioni, che subito la mostrano comè: una
ragazza di ventiquattro anni, ambiziosa e positiva, e già abbastanza viziata
dalla vita».
A viziarla pensò da subito il nonno, Giovanni Papini, che incluse la
nipotina preferita, La mia Ilaria,
nel libro Figure umane: «Nacque in
casa mia, figliola della mia figliola, in una di quelle mattine di marzo umide
e quasi bianche che il sole, ogni tanto, rallumina con prepotenza fugace. Lho
tenuta in braccio con tremore, da quando era gracile e tenera e innocente, e
ora ritrovo dinanzi a me, creatura parlante e ragionante, colle sue ingenue
malizie e le sue chiare volontà, già donna a cinque anni da poco finiti.
LIlaria, se Dio vuole, non mi conosce come uomo di letteratura e autore di
libri bensì mi ricerca e mi vuol bene come uomo che la prende in collo perché
possa cogliere i fiori degli alberi… Mi stima, nel suo piccolo mondo, potente
al pari di un re e poeta come un fanciullo…».
Figlia dello scrittore Barna Occhini e di Gioconda
Papini, Ilaria era nata a Firenze il 28 marzo 1934. Quando frequentava la
seconda liceo, alluscita da scuola, il regista Luciano Emmer la notò e la scritturò per il film Terza liceo (1954), che segnò il suo
debutto di attrice in cui, celata sotto lo pseudonimo di Isabella Redi, impersonava
Lucia, ragazza ricca ma generosa e anche un po ribelle. Tuttavia la sua
passione era il teatro e, terminato di girare il film, siscrisse allAccademia
Nazionale dArte Drammatica di Roma, dove ebbe come compagno di corso Gian Maria Volonté e fece in tempo ad
avere Silvio dAmico come insegnante
di Storia del teatro, mentre come docenti di recitazione ebbe Sergio Tofano, Annibale Ninchi e Wanda
Capodaglio. Frequentò lAccademia con profitto ma, al termine del terzo
anno scolastico 1956-1957, non prese parte al saggio finale, perché intervenne
la nascente televisione a rapirla al teatro, offrendole una parte da
protagonista nello sceneggiato a puntate Jane
Eyre, dal romanzo di Charlotte
Brontë, accanto a Raf Vallone,
con la regia di Anton Giulio Majano.
Al teatro fece subito ritorno sotto la direzione di Luchino Visconti ne Limpresario delle Smirne di Goldoni e nel 1958 in Uno sguardo dal ponte di Arthur Miller, sempre con la compagnia
Morelli-Stoppa, accanto a un giovane Corrado
Pani. La Occhini interpretava la giovane nipote dellEddie Carbone di Paolo Stoppa, che per gelosia faceva
precipitare in tragedia la vicenda di immigrazione clandestina ambientata nella
Brooklyn degli anni Cinquanta. Giorgio
Prosperi giudicò così la sua interpretazione: «ancora un po acerba e
petulante nella parte di Catherine, è tuttavia in progresso e crea qualche
istante di autentica tensione». Ancora un anno nella compagnia Morelli-Stoppa e
un altro spettacolo con la regia di Visconti, Figli darte (1959) di Diego
Fabbri, e poi fu il regista Orazio
Costa Giovangigli, suo insegnante in Accademia, a volerla nella dannunziana
Francesca da Rimini (1960),
utilizzandola altre volte in seguito come Mascia nelle Tre sorelle di Čechov e poi nelle Allegre comari di Windsor di Shakespeare
allArena di Verona nel 1976. Nel frattempo, accanto a Gassman nella parte
inizialmente destinata a Anna Mara
Ferrero, la Occhini, che vestiva i panni di una prostituta, fu testimone
dello storico fiasco di Un marziano a
Roma (1960) di Ennio Flaiano,
commentato dallautore con uno dei suoi memorabili aforismi: «Linsuccesso mi
ha dato alla testa».
Al cinema continuò a lavorare, ma sempre in ruoli non
da protagonista che, tuttavia, le valsero un Nastro dargento per Benvenuti in casa Gori (1990) di Alessandro Benvenuti e il
riconoscimento del David di Donatello per la migliore attrice non protagonista
in Mine vaganti (2010) di Ferzan Özpetek. La sua carriera
televisiva intanto proseguiva, si può dire senza interruzioni, regalandole il
ruolo da coprotagonista, accanto a Alberto
Lionello, nel Puccini, ritratto
in cinque puntate del celebre compositore, in cui la Occhini impersonava la
moglie Elvira. Fu quella una miniserie firmata da Sandro Bolchi, particolarmente apprezzata dal pubblico televisivo,
che vantava nel cast il Giulio Ricordi di Tino
Carraro, Vincenzo De Toma nei
panni di Luigi Illica, e poi Giancarlo
Dettori come Arturo Toscanini, Mario
Maranzana come Giuseppe Giacosa, e Renato
De Carmine-Gabriele DAnnunzio. Era unepoca in cui la televisione a caccia
dinterpreti pescava a piene mani nel teatro italiano e il personaggio della
battagliera Elvira Puccini consentì alla Occhini di sfoggiare una dizione
impeccabile nel suo migliore toscano.
Ma il suo cuore continuò a battere per il teatro e,
convinta assertrice delle compagnie private, ebbe a rilasciare dichiarazioni
coraggiose rispetto ai Teatri Stabili: «Non aspiro ad andarci e, del resto, non
ho avuto molte offerte di questo genere. Mi piace la compagnia di giro,
lindipendenza. Degli Stabili, non mi piace latmosfera: un po tetra, che sa
di impiegatizio e di rivalse sindacali. Non cè rischio, non cè rabbia, non
cè divertimento, insomma. Cè la paga sicura, questa sì, e la possibilità di
spettegolare nei camerini. Considerato, poi, che agli Stabili spetterebbe un
compito culturale che, nella maggior parte dei casi, non assolvono –
sacrificando invece sullaltare del divismo e dei personalismi – mi sembra che
questo mio atteggiamento sia sufficientemente spiegato». Così la pensava nel
1976.
Ma accade nella vita di cambiare opinione, ed eccola
nellultima fase della sua carriera presente in alcune significative
realizzazioni teatrali degli Stabili di quegli anni di fine secolo scorso. Fu, infatti,
grazie al Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia che si scoprì interprete
pirandelliana nelloriginale rilettura della trilogia di Pirandello del teatro nel teatro, diretta da Giuseppe Patroni Griffi: imperiosa Generala in Questa sera si recita a soggetto (1986), impeccabile Madre nei Sei personaggi in cerca dautore (aprile
1988) e Delia Morello di una passionalità da cinema muto in Ciascuno a suo modo (ottobre 1988).
E ancora, nel 1996 al Teatro di Roma, prese parte alla
memorabile trasposizione scenica di Ronconi
del capolavoro di Gadda Quer pasticciaccio brutto de via Merulana,
uno spettacolo corale di oltre cinquanta attori, al centro del quale è
linchiesta sulla «barbara uccisione dellinfelice e inutilmente sensuale
Liliana Balducci di Ilaria Occhini» (Franco
Quadri).
Infine, nuovamente con Ronconi, sullo scorcio del
secolo che stava per finire la vedemmo sospesa a mezzaria sul palcoscenico del
Teatro Argentina di Roma dare corpo e voce al ritratto della Madre nel
visionario Alcesti di Samuele di Alberto Savinio, che solo Ronconi
poteva avere lardire di riproporre, dopo il fiasco della messinscena
strehleriana al Piccolo Teatro di Milano di cinquantanni prima. Non era certo
quello il ritratto rinascimentale di cui parlava Adele Cambria, bensì una sorta
di saviniana “poltromamma” che interloquiva col “potrobabbo” di Massimo De Rossi, presenza arcigna di
madre borghese intrisa di implicazioni freudiane che commentava gli accadimenti
del figlio e della nuora sul palcoscenico.
E con Savinio ci piace concludere, a
dimostrazione della curiosità e della disponibilità con cui questa attrice,
figlia e nipote di scrittori, nonché moglie dello stesso scrittore Raffaele La Capria, mise il suo talento
e la sua notorietà al servizio della riscoperta di un altro scrittore, Savinio
appunto, in vita assai mal ripagato del suo amore per il teatro. LAlcesti di Samuele era stata preceduta,
nel marzo 1990, dalla riproposta di Capitano
Ulisse, titolo centrale nella scarna produzione saviniana per il teatro
ripescato da un vecchio compagno di Accademia della Occhini, il regista Mario Missiroli che ne curò la regia al
Teatro Biondo Stabile di Palermo. Lattrice vi figurava come protagonista
femminile nei ruoli di Circe, Calipso e Penelope; il che le consentiva di
triplicarsi nella vendicativa e furibonda maga fatale, nella burrosa e sedativa
Calipso e nella prosaica consorte di una Penelope piuttosto borghese, malgrado
la corona turrita che le cingeva il capo regale. Incarnazione ironica e
sorniona di un eterno femminino, invano inseguito dal non meno borghese
Capitano Ulisse, dagli accenti di gozzaniana, piuttosto che di dantesca,
memoria. Una parte che diversi decenni prima Marta Abba aveva rifiutato.
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