«Perché ho girato così pochi film? Cè un motivo. Per molti ero
un miserabile rospo che usciva dal pantano maleodorante della disprezzatissima
tv, osando fare un salto nellOlimpo del cinema».
Sorride mentre parla
sottovoce. Ha lo sguardo assorto nei ricordi. È seduto su un divano, nella
penombra di un salone. Dallaltra parte, un giovane studioso scarabocchia un
taccuino. Roma, piazza delle Coppelle, in un pomeriggio di gennaio. È attraverso
questa fotografia che provo a ripercorrere con la mente tre anni di incontri e
chiacchierate con Ugo Gregoretti.
Lho conosciuto nel
maggio del 2016 mentre ero alle prese con la stesura della mia tesi di laurea
dedicata al cinema di Ettore Scola.
Non potendo, ahimè, disporre della testimonianza diretta del regista, ho
cercato qualcuno che potesse aiutarmi a ricostruire il personaggio. Avevo
bisogno di una figura artistica vicina a Scola, una mente creativa che potesse
regalarmi racconti, aneddoti, frammenti di backstage. Sentivo la necessità di
cercare qualcosa di diverso, di inedito. Ed ecco che saltò fuori il nome di
Gregoretti. Non certo sconosciuto ma, fino a quel momento, mai approfondito.
Decisi di contattarlo per unintervista telefonica e lui con estrema gentilezza
mi propose di andare a trovarlo a casa. Non persi tempo e ventiquattrore dopo
ero nel suo salotto, a due passi dal Pantheon, con un quaderno e un
registratore. Già nel
corso della prima chiacchierata mi resi conto dello spessore del personaggio
che avevo davanti. Parlammo molto di Scola ma la mia curiosità si concentrò
sempre più sul mio interlocutore. Rientrando a casa cercai di trovare una
collocazione per la carriera di Gregoretti. Non fu semplice: era un uomo di
spettacolo nel senso più ampio che si possa immaginare. A cominciare dalla
televisione della quale fu uno degli inventori, dei soci fondatori, dei padri
storici. Come Enzo Biagi, ma non
accademico, come Sandro Bolchi, ma
non prosaico, come Mike Bongiorno,
ma non nazionalpopolare. Unico nella sua ricerca continua di invenzioni, un
intellettuale leggero aperto a tutti i linguaggi al quale decisi quella sera
stessa di dedicare la mia tesi magistrale.
Unoccasione
rara per il sottoscritto da sempre appassionato alla Rai delle origini: teleromanzi
e caroselli oggi archiviati al semplice ricordo in bianco e nero ma rappresentativi
di un pezzo importante di storia del Paese e ancora vivissimi e reperibili, per
chi ne senta il desiderio, grazie al web e a Raiplay. Uninchiesta di Mario Soldati, una tappa del giro dItalia
con Sergio Zavoli o uno sketch di Nanni Loy sono ancora oggi
testimonianze importanti ed efficaci per comprendere meglio “come eravamo”.
Ecco
il mondo di Ugo Gregoretti. Le sue creazioni presero forma in questo contesto. Impossibile
dimenticare dettagli dei suoi racconti, a cominciare dal suo modo di esporre i
ricordi. La dialettica, le pause, la ricerca di parole spesso sorprendenti mi
rivelarono un personaggio di profonda cultura, di genuina modestia e soprattutto
di sfacciata ironia.
Nacque
unamicizia sincera, rafforzata nel corso di questi ultimi anni da tanti spassosi
appuntamenti. Era felice di vedere che un giovane poco più che ventenne stesse
approfondendo con sincera ammirazione la sua attività artistica. Ammirazione
che, per essere tale, doveva esplicarsi obbligatoriamente attraverso un
approccio leggero alla materia, scevro da cerimonialità e convenevoli. Il
“baldanzoso giovanotto”, così mi chiamava, assetato di notizie sulla sua
carriera infinita. Giornalista, autore televisivo e cinematografico,
documentarista, regista teatrale e di opere liriche, intellettuale, scrittore,
attore, presentatore, direttore di importanti rassegne culturali e di
spettacolo.
In
questi tre anni insieme mi resi conto che una delle sue caratteristiche più
autentiche era quella di non prendersi sul serio. Lo capii quando mi raccontò
con candido sarcasmo della raccomandazione che gli consentì di entrare in Rai durante
un severissimo blocco delle assunzioni. Raccomandazione che non fu improvvida, poiché
nel giro di poco tempo ebbe modo, attraverso le sue intelligenti realizzazioni,
di mettersi in mostra. La televisione, in pochi lo sanno, deve proprio a lui lindividuazione
della Santa patrona. «Mi misi a leggere alcune vite di Santi – mi disse – e scoprii
che Santa Chiara aveva inventato la diretta in tempo reale, perché aveva visto
sul muro della sua cella la passione di San Francesco». Questo fu il primo
incarico che ricevette personalmente dallallora direttore generale Salvino Sernesi; lo portò a termine, a
seguito di una approfondita rassegna agiografica, con il plauso di papa Pio XII.
Dopo
i primi anni in Rai, arrivò in poco tempo alla redazione giornalistica guidata
da Vittorio Veltroni. Altra perla:
il racconto dellilarità generale quando, poco dopo essere stato arruolato, scambiò
i grandi rulli della moviola per una affettatrice di mortadelle. È qui che
cominciò subito a occuparsi di attualità e, negli anni 50, realizzò una serie
di documentari e reportage sul costume. Semaforo
(1955) e Piazza San Marco (1956) su
tutti, testimonianze importanti della sua profonda inclinazione al satirico e
al comico. Come un jazzista navigato che ama sperimentare la contaminazione di
stili e di forme, nei suoi lavori cercò sempre di mescolare la
grammatica cinematografica, cui guardava con ammirazione, con la prassi del mezzo
televisivo producendo risultati straordinari che, a distanza di quasi sessantanni,
riescono ancora a sorprendere per la loro modernità. Se da un lato lItalia
stava scoprendo le potenzialità della tv come nuovo strumento di comunicazione,
dallaltro cera chi, come Ugo, già lavorava per innovare.
E innovatore
Gregoretti lo fu, come attestano alcune sue trovate, alcune soluzioni
registiche così avanti nel tempo, non sempre di immediata comprensione. Tanto
che alcuni colleghi della Rai saffrettarono a coniare il termine
“gregorettata” per etichettare (con superficialità) tutte quelle realizzazioni
a loro dire di scarso valore. Di tuttaltro avviso, però, fu la giuria del Prix
Italia che nel 1960 decretò la vittoria per la sezione dei documentari de La Sicilia del Gattopardo, consacrando così
il giovane Gregoretti agli onori della cronaca nazionale. In quelloccasione riuscì
persino a destare linteresse di Luchino
Visconti, alle prese con la sua personale trasposizione del romanzo di
Tomasi di Lampedusa. È grazie al documentario di Gregoretti che il regista
milanese poté vedere gli interni di Palazzo Gangi di Palermo e ammirare il
maestoso salone da ballo – fino ad allora mai aperto al pubblico – in cui è
ambientata una delle scene più celebri del suo film. «Gli feci fare un bel sopralluogo
in poltrona» mi disse sorridendo.
Lanno
seguente realizzò Controfagotto, una
fortunata rubrica satirica sul costume e le abitudini degli italiani. Fu questa
anche la prima volta per Gregoretti in video. Aveva scoperto che Tito Stagno per andare in onda riceveva dalla Rai unindennità piuttosto
cospicua. «Capisci bene – mi disse – che con una famiglia da mantenere la cosa era
alquanto allettante».
Il
successo riscosso e la notorietà raggiunta gli consentirono di tentare la strada
del cinema, tanto che per buona parte degli anni Sessanta abbandonò la
telecamera per tentare la strada della cinepresa. Nel 1962 venne coinvolto da Alfredo Bini per I nuovi angeli, un film inchiesta sulla gioventù italiana del boom
economico. Sempre grazie a Bini lanno seguente partecipò al collettivo Ro.Go.Pa.G., film diviso in quattro
episodi il cui titolo è una sigla che identifica i registi dei rispettivi
segmenti: Rossellini, Godard, Pasolini e, appunto, Gregoretti. Firmò lepisodio Il pollo ruspante, una feroce satira sulla
società dei consumi, con protagonista la coppia Tognazzi-Gastoni. Sempre
nel 1963 girò il fantascientifico Omicron,
incassando però, nonostante le grandi aspettative, un risultato fallimentare.
In quel disastro non incontrò nemmeno la solidarietà dei suoi collaboratori,
come ad esempio il compositore Umiliani,
che cercò di “riciclare” le musiche in altre commissioni. Al termine di quello
stesso anno, grazie allinvito di Godard,
prese parte a un altro lungometraggio collettivo oggi quasi dimenticato
intitolato Le truffe più belle del mondo,
firmando lepisodio Il foglio di via.
Ben più importante fu loperazione de Le
belle famiglie (1964), una commedia di cassetta che aveva lobiettivo di
rilanciarlo definitivamente nellostile mondo del cinema. «Critici e
intellettuali – dichiarò Gregoretti – mi vedevano come un rospo che dal pantano
maleodorante della tv aveva osato saltare nellolimpo del cinema». Fatto sta
che la commedia in questione, un po debole nel complesso, si tradusse in un
tremendo fiasco, tale da convincerlo a un ritorno nellangusto, ma solo per
dimensioni geometriche, piccolo schermo.
Qui vi
restò per poco, giusto il tempo di scatenare, nel 1968, un mare di polemiche
con il suo originalissimo adattamento de Il
circolo Pickwick di Dickens (trampolino
di lancio nel mondo dello spettacolo di un giovanissimo Gigi Proietti). Probabilmente fatale fu la scelta – divenuta poi
suo tratto peculiare – di apparire e muoversi allinterno dello sceneggiato
come reporter, con la volontà di ragguagliare, ma anche di destabilizzare, lo
spettatore proponendo una formula in aperta rottura con la tradizione “alla
Majano”. Carico di anticonformismo Il
circolo Pickwick finì nelle
ultime posizioni dellindice di gradimento e tanto bastò al direttore generale Bernabei per decidere di tenere lontano
Gregoretti dagli studi televisivi per cinque anni. Tempo che fu dedicato alla
realizzazione di documentari politici e di propaganda che lo portarono a
maturare la sua adesione al PCI. Negli anni della contestazione e dellautunno
caldo realizzò Apollon: una fabbrica
occupata (1969) e Contratto (1970),
stabilendo rapporti di collaborazione con la casa di produzione del partito, la
Unitelefilm, con la quale creò fra gli anni Settanta e Ottanta significativi
docufilm fra cui Vietnam: scene del dopo
guerra (1975), Dentro Roma (1976)
e Comunisti quotidiani (1981).
Dopo Pickwick tornò alla televisione che nel
frattempo aveva subito mutamenti importanti. Era una tv nuova, ormai a colori. Vi
fece ritorno con intenti meno provocatori, dedicandosi con passione e impegno
al rinnovamento della formula dello sceneggiato tradizionale. Furono anni di intenso
lavoro vissuti al fianco dellamico scenografo Guglielminetti, collaboratore storico con il quale sperimentò e
indagò a fondo le possibilità espressive del mezzo elettronico. Aprì la strada,
nel 1974, Le tigri di Mompracem,
tratto da Salgari; passando poi lanno
successivo alle visitazioni strutturalistiche sul Romanzo popolare italiano; nel 77 affrontò il dissidente Bulkakov e “le sue” Uova Fatali in una ricostruzione tutta
elettronica dove a dominare era luso della tecnologia del Chroma-Key, un
artifizio scenico peculiare della tv che ancora oggi consente di sovrapporre allimmagine
ripresa da una telecamera fissa altre immagini prestabilite.
Tra
il 75 e il 76 Gregoretti sinvaghì di unaltra musa, lopera lirica, inventandosi
una regia televisiva rivoluzionaria. Con Il
cappello di paglia di Firenze di Nino
Rota “prese le misure”, ma è con Litaliana
in Algeri che colpì nel segno, traducendo la vitalità musicale di Rossini in una vitalità scenica espressa
attraverso una partitura dimmagini pensata per il pubblico televisivo, con
buona pace di quei puristi della lirica che gridarono allo scandalo. Nel 1979,
allo scadere del decennio, manifestò il suo interesse anche per la prosa trasponendo,
sempre per la tv, due divertenti commedie della tradizione britannica fino a
quel momento mai tradotte in italiano: La
casta fanciulla di Cheapside di Thomas
Middleton e Tre ore dopo le nozze del trittico Gay, Pope e Arbuthnot. Per Gregoretti
fu loccasione di “calcare” per la prima volta le tavole del palcoscenico grazie
al coinvolgimento dellamico Proietti curando lallestimento de Il bugiardo di Goldoni per il Teatro Stabile di Genova. Qualche anno più tardi
dedicò proprio al drammaturgo veneziano forse lopera più emblematica della produzione
televisiva, Viaggio a Goldonia
(1982), definita dallo stesso regista il suo «programma testamentario», poiché
in esso confluirono tutte le esperienze maturate in tanti anni di televisione. Per
il piccolo schermo realizzò pochi altri sceneggiati, come loriginale
televisivo La recita scolastica del conte
di Carmagnola (1983) liberamente ispirata da Manzoni, Lultimo scugnizzo
di Viviani (1992) e Il conto Montecristo (avete letto bene, conto e non Conte), tratto da Dumas padre
e ambientato nellItalia di tangentopoli (1996).
Dalla
metà dei mitici Settanta sino allalba del nuovo millennio fu attivissimo nei
teatri dItalia con numerose regie di prosa, affrontando Petrolini, Ionesco, lamico
Satta Flores, lo stesso Viviani, Jarry, Pirandello e realizzando raffinati allestimenti di opere liriche: solo
per citare le più importanti, Il
matrimonio segreto di Cimarosa, Lelisir damore di Donizetti, Un ballo in
maschera di Verdi, La Bohème di Puccini, Il barbiere di Siviglia
sia nella versione di Rossini sia in quella di Paisiello.
Proprio leccezionale
varietà musicale di questi autori fu fonte dispirazione per il concepimento dellopera
più profonda e malinconica della carriera di Gregoretti. Con lautobiografico Maggio Musicale siglò il ritorno al
grande schermo per raccontare attraverso linterpretazione di Malcom McDowell il suo agitato rapporto con il mondo della lirica.
Tuttavia la malasorte cinematografica non lo abbandonò neanche in quelloccasione.
Distribuita nelle sale nel 1989, la pellicola raggiunse pochissimi spettatori. Il 6 luglio scorso, durante
la commemorazione presso la casa del cinema di Roma, Gianni Amelio ha ricordato proprio la bellezza di Maggio Musicale invitando i giovani
colleghi a riscoprirlo per ritrovarci dentro lessenza più intima del suo autore.
Oggi
che Gregoretti non cè più ci si rende conto di quanto sia difficile ricevere leredità
di una carriera artistica così ricca, piena di sfaccettature, costellata di
esperienze maturate nei più disparati ambiti della cultura e dello spettacolo.
In questa sede non ho ricordato, ad esempio, della sua esperienza di attore al
fianco di Alberto Sordi in Amore mio aiutami, o ne La terrazza di Scola; così come della
sua avventura da conduttore di Domenica
In nel 1992 assieme ad Alba Parietti
e a Toto Cutugno; delle direzioni
artistiche del Teatro Stabile di Torino dal 1985 al 1989 e del festival
Benevento Città Spettacolo (da egli stesso ideato) dal 1980 al 1990. Dimentico di sicuro qualcosaltro di questo autore ironico e divertente, fuori dagli schemi
e allergico a qualsiasi classificazione.
In
tre anni di incontri, oltre alle chiacchierate nella casa di Roma, ricordo con
affetto il viaggio a Pontelandolfo, piccola cittadina nel beneventano alla
quale la famiglia Gregoretti è legata da antica tradizione. Qui
è custodito larchivio personale, donato al comune nel 2012 e oggi raccolto
nelle sale del bellissimo palazzo Rinaldi. La mia visita, inizialmente finalizzata
alla consultazione di documenti inediti per la tesi, si trasformò con piacevole
sorpresa in un soggiorno dal sapore familiare. Furono giornate indimenticabili
di chiacchierate e riflessioni sulle tematiche più vivaci e disparate.
Eclettico, stravagante, geniale. Questo e molto altro è stato Gregoretti
per lItalia. Gli occhi rivolti al futuro e il sorriso beffardo della
leggerezza. Spesso scherzava: «se togliamo la messa cantata e la cronaca
sportiva ho fatto tutto». Chissà, magari in unaltra vita.
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