Valentina Cortese è stata per Giorgio Strehler quello che Rina
Morelli fu per Luchino Visconti.
I due maestri della regia italiana del secondo dopoguerra trovarono in quelle
straordinarie attrici le interpreti ideali, al punto che le loro
indimenticabili regie sembrano nella memoria declinarsi al femminile, per la
forza interpretativa delle due protagoniste. Linconfondibile stile recitativo
della Cortese si stagliava nella memoria dello spettatore e mentre i contorni
dello spettacolo a poco a poco sfumavano, nel tempo persisteva sempre più una
presenza, la sua. In questo linterprete sembrava avere ragione di
quellineludibile destino che si accompagna al teatro e vuole che, calato il
sipario, il ricordo delle emozioni, che solo lo spettacolo teatrale può
procurare, sbiadisca a poco a poco, sino a svanire del tutto, insieme con il
trascorrere delle generazioni di pubblico.
Prima
dellincontro con Strehler, la Cortese aveva alle spalle unintera carriera di
attrice cinematografica ma, soprattutto, una personalità caratterizzata da un
coraggio e da unautenticità che le venivano da lontano. Nata il 1° gennaio
1923 a Milano, figlia di una ragazza madre della buona borghesia, venne
affidata a una coppia di contadini e trascorse linfanzia ad Agnadello, un
paesino al confine tra Cremona e Bergamo, in un ambiente rurale al quale restò
affettivamente grata e quei suoi eleganti foulard, che sempre portava annodati
in testa, al punto di diventare la cifra stilistica del suo abbigliamento, si
scoprirono essere non la stravaganza di una diva, bensì un omaggio a quelle
contadine che lavevano accolta garantendole uninfanzia felice. Reintegrata
nella famiglia dorigine, visse ladolescenza a Torino, e anche la sua precoce
vocazione di attrice si manifestò con un atto di coraggio, quando abbandonò il
liceo per andare a Roma, a sostenere un provino alla Regia Accademia dArte
Drammatica. Poiché i corsi erano già iniziati, Silvio dAmico, che ne intuì il talento, le offrì di ammetterla
lanno successivo direttamente al secondo anno. Prima di lasciare Roma, laspirante
attrice andò a Cinecittà per salutare Guido
Salvini, impegnato nelle riprese di Orizzonte
dipinto (1941), film ambientato nel mondo del teatro, che vedeva tra gli
interpreti il meglio della scena teatrale italiana dellepoca. Salvini, che
aveva conosciuto lanno prima mentre era in vacanza con la famiglia a Stresa, la
scritturò su due piedi. Quel film segnò il debutto di una giovanissima Cortese,
che recitava la sua piccola parte sulle ginocchia di Ermete Zacconi. Appare come un segno del destino che la carriera di
questa grande attrice, destinata a muoversi in ambedue questi mondi, sia avvenuta
sotto la duplice insegna del cinema e del teatro.
Subito
dopo Alessandro Blasetti la volle
nel suo celeberrimo film La cena delle beffe
(1942), dove interpretava Lisabetta, la giovane ingenua innamorata del Neri di Amedeo Nazzari. Sono i primi passi nel
mondo del cinema, che la vedrà impegnata in quasi cento film sotto la direzione,
tra gli altri, di Fellini e Antonioni, Bolognini e Zeffirelli, Losey e Truffaut. Nel 1946, accanto ad Andrea
Checchi, fu la protagonista di Roma
città libera, in cui recitava il ruolo di una giovane dattilografa a
rischio di darsi alla prostituzione nei giorni difficili della Roma
dellimmediato dopoguerra, film prodotto da Marcello dAmico e diretto da Marcello
Pagliero (il Manfredi di Roma città
aperta), assistito alla regia da un giovane Luigi Filippo dAmico. Furono gli anni della relazione con Victor De Sabata, celebre direttore
dorchestra, sposato e di trentun anni più vecchio, una storia che fece
scandalo, interrotta nel 1948 dallaccettazione di un contratto con lamericana
Fox. A Hollywood conobbe e sposò Richard
Basehart, con il quale ebbe un figlio, Jackie, e insieme a loro rientrò in
Italia allinizio degli anni Cinquanta. Delle tante interpretazioni
cinematografiche, vanno almeno ricordate la moglie innamorata del mediocre
protagonista maschile (Gabriele Ferzetti)
ne Le amiche (1955) di Antonioni; il
cammeo della prostituta che canta un poetico song dintonazione brechtiana nel Kean - Genio e sregolatezza (1957) di Vittorio Gassman; la trepidante madre francese di Francesco in Fratello sole, sorella luna (1972) di
Zeffirelli; ma, soprattutto, la smarrita Séverine di Effetto notte (1973) di François Truffaut, un ruolo pensato dal
regista francese a sua immagine, lasciandole ampia libertà dimprovvisazione.
Si rivelò unintuizione felice, perché la Cortese con la creazione di quel
personaggio diede linterpretazione più memorabile della sua carriera
cinematografica, che le valse la nomination
allOscar come migliore attrice non protagonista (vinto quellanno da Ingrid Bergman per Assasssinio sullOrient Express di Sidney Lumet, che a lei volle dedicarlo).
Oltre
al cinema, sarà la stagione dei grandi sceneggiati televisivi a sancire la
notorietà del suo volto presso il grande pubblico, ma a teatro limmagine di
Valentina Cortese si accompagna al nome di Giorgio
Strehler, al quale fu sentimentalmente legata nel decennio tra la fine
degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta. Malgrado lavessero preceduta
attrici del calibro di Lilla Brignone
e Valentina Fortunato, si può dire che Valentina Cortese, grazie a
interpretazioni indimenticabili, divenne in breve licona femminile del Piccolo
Teatro di Milano. I pirandelliani Giganti
della montagna, con limmagine finale del sipario di ferro che stritola la
carretta dei comici – invenzione registica di grande pregnanza simbolica –,
rappresentano una tappa centrale: la sua contessa Ilse, dolente e sognante, estenuata
nella sua tensione lirica ed eterea sin quasi a una corporea evanescenza, la
consegna autorevolmente alla galleria delle grandi interpreti pirandelliane.
Analogamente
la sua Giovanna Dark, protagonista della Santa
Giovanna dei Macelli di Brecht,
la introduce, accanto alla Madre Coraggio di Lina Volonghi di squarziniana memoria, nella grande rassegna
italiana delle interpreti brechtiane. Non stupisce immaginare che, a detta di
quanti la videro, sia riuscita a infondere in quel personaggio la sua umanità,
fragile allapparenza, coniugandola con lo straniamento richiestole dalla regia
strehleriana, ossequiente al dettame epico.
Ma
la figura che maggiormente resiste nella memoria di tanti spettatori è la sua
Liuba del Giardino dei ciliegi di Čechov.
Nella scena nitida e abbacinante di Luciano
Damiani, Strehler disegnò una regia lirica sino allo struggimento, al
centro della quale spiccava la Liuba della Cortese, una donna tormentata da una
lancinante sofferenza, eppure capace di slanci generosi, talvolta quasi
dimentica di sé, continuamente in bilico tra nostalgia del passato e ansia di
un futuro vagheggiato come eterna fuga dal faticoso presente.
Uninterpretazione, per quanti la videro, indimenticata, che costò molto a
entrambi: a Strehler, col quale la storia damore era ormai finita, e a lei,
come ci dicono le lettere che il regista le scriveva. Eppure, malgrado
linsoddisfazione, anche crudele, che il regista le confessava in quelle
missive, per Gerardo Guerrieri la
Cortese non era stata mai così grande. La sua Liuba rivive nelle parole di Angelo Maria Ripellino, poeta e
critico, grande conoscitore del teatro russo: «scompiglia i fulvi capelli, si
comprime le guance, con umida voce rammaricandosi, e di punto in bianco
prorompe in risate e moine, in un trottolio varieggiante».
Quello che taluni scambiarono per manierismo fu
la cifra stilistica pazientemente cesellata da unattrice, che seppe
trasfonderla nella verità dei personaggi della sua maturità di artista: la
Liuba del Giardino dei ciliegi e la
Séverine di Effetto notte. Nel film
di Truffaut è la Séverine di Valentina Cortese a pronunciare una delle
considerazioni più vere, che siano state dette sulla vita degli attori. La
troupe del film è riunita per la cena di addio allattrice, arrivata al termine
delle sue riprese. Séverine: «è strana la nostra vita, ci sincontra, si lavora
insieme, ci si ama e poi non si fa in tempo ad afferrare qualcosa che… non cè
più».
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