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Ricordo di Valentina Cortese

di Alessandro Tinterri
  Valentina Cortese
Data di pubblicazione su web 18/07/2019  

Valentina Cortese è stata per Giorgio Strehler quello che Rina Morelli fu per Luchino Visconti. I due maestri della regia italiana del secondo dopoguerra trovarono in quelle straordinarie attrici le interpreti ideali, al punto che le loro indimenticabili regie sembrano nella memoria declinarsi al femminile, per la forza interpretativa delle due protagoniste. L’inconfondibile stile recitativo della Cortese si stagliava nella memoria dello spettatore e mentre i contorni dello spettacolo a poco a poco sfumavano, nel tempo persisteva sempre più una presenza, la sua. In questo l’interprete sembrava avere ragione di quell’ineludibile destino che si accompagna al teatro e vuole che, calato il sipario, il ricordo delle emozioni, che solo lo spettacolo teatrale può procurare, sbiadisca a poco a poco, sino a svanire del tutto, insieme con il trascorrere delle generazioni di pubblico.

Prima dell’incontro con Strehler, la Cortese aveva alle spalle un’intera carriera di attrice cinematografica ma, soprattutto, una personalità caratterizzata da un coraggio e da un’autenticità che le venivano da lontano. Nata il 1° gennaio 1923 a Milano, figlia di una ragazza madre della buona borghesia, venne affidata a una coppia di contadini e trascorse l’infanzia ad Agnadello, un paesino al confine tra Cremona e Bergamo, in un ambiente rurale al quale restò affettivamente grata e quei suoi eleganti foulard, che sempre portava annodati in testa, al punto di diventare la cifra stilistica del suo abbigliamento, si scoprirono essere non la stravaganza di una diva, bensì un omaggio a quelle contadine che l’avevano accolta garantendole un’infanzia felice. Reintegrata nella famiglia d’origine, visse l’adolescenza a Torino, e anche la sua precoce vocazione di attrice si manifestò con un atto di coraggio, quando abbandonò il liceo per andare a Roma, a sostenere un provino alla Regia Accademia d’Arte Drammatica. Poiché i corsi erano già iniziati, Silvio d’Amico, che ne intuì il talento, le offrì di ammetterla l’anno successivo direttamente al secondo anno. Prima di lasciare Roma, l’aspirante attrice andò a Cinecittà per salutare Guido Salvini, impegnato nelle riprese di Orizzonte dipinto (1941), film ambientato nel mondo del teatro, che vedeva tra gli interpreti il meglio della scena teatrale italiana dell’epoca. Salvini, che aveva conosciuto l’anno prima mentre era in vacanza con la famiglia a Stresa, la scritturò su due piedi. Quel film segnò il debutto di una giovanissima Cortese, che recitava la sua piccola parte sulle ginocchia di Ermete Zacconi. Appare come un segno del destino che la carriera di questa grande attrice, destinata a muoversi in ambedue questi mondi, sia avvenuta sotto la duplice insegna del cinema e del teatro.

Subito dopo Alessandro Blasetti la volle nel suo celeberrimo film La cena delle beffe (1942), dove interpretava Lisabetta, la giovane ingenua innamorata del Neri di Amedeo Nazzari. Sono i primi passi nel mondo del cinema, che la vedrà impegnata in quasi cento film sotto la direzione, tra gli altri, di Fellini e Antonioni, Bolognini e Zeffirelli, Losey e Truffaut. Nel 1946, accanto ad Andrea Checchi, fu la protagonista di Roma città libera, in cui recitava il ruolo di una giovane dattilografa a rischio di darsi alla prostituzione nei giorni difficili della Roma dell’immediato dopoguerra, film prodotto da Marcello d’Amico e diretto da Marcello Pagliero (il Manfredi di Roma città aperta), assistito alla regia da un giovane Luigi Filippo d’Amico. Furono gli anni della relazione con Victor De Sabata, celebre direttore d’orchestra, sposato e di trentun anni più vecchio, una storia che fece scandalo, interrotta nel 1948 dall’accettazione di un contratto con l’americana Fox. A Hollywood conobbe e sposò Richard Basehart, con il quale ebbe un figlio, Jackie, e insieme a loro rientrò in Italia all’inizio degli anni Cinquanta. Delle tante interpretazioni cinematografiche, vanno almeno ricordate la moglie innamorata del mediocre protagonista maschile (Gabriele Ferzetti) ne Le amiche (1955) di Antonioni; il cammeo della prostituta che canta un poetico song d’intonazione brechtiana nel Kean - Genio e sregolatezza (1957) di Vittorio Gassman; la trepidante madre francese di Francesco in Fratello sole, sorella luna (1972) di Zeffirelli; ma, soprattutto, la smarrita Séverine di Effetto notte (1973) di François Truffaut, un ruolo pensato dal regista francese a sua immagine, lasciandole ampia libertà d’improvvisazione. Si rivelò un’intuizione felice, perché la Cortese con la creazione di quel personaggio diede l’interpretazione più memorabile della sua carriera cinematografica, che le valse la nomination all’Oscar come migliore attrice non protagonista (vinto quell’anno da Ingrid Bergman per Assasssinio sull’Orient Express di Sidney Lumet, che a lei volle dedicarlo).

Oltre al cinema, sarà la stagione dei grandi sceneggiati televisivi a sancire la notorietà del suo volto presso il grande pubblico, ma a teatro l’immagine di Valentina Cortese si accompagna al nome di Giorgio Strehler, al quale fu sentimentalmente legata nel decennio tra la fine degli anni Cinquanta e la fine dei Sessanta. Malgrado l’avessero preceduta attrici del calibro di Lilla Brignone e Valentina Fortunato, si può dire che Valentina Cortese, grazie a interpretazioni indimenticabili, divenne in breve l’icona femminile del Piccolo Teatro di Milano. I pirandelliani Giganti della montagna, con l’immagine finale del sipario di ferro che stritola la carretta dei comici – invenzione registica di grande pregnanza simbolica –, rappresentano una tappa centrale: la sua contessa Ilse, dolente e sognante, estenuata nella sua tensione lirica ed eterea sin quasi a una corporea evanescenza, la consegna autorevolmente alla galleria delle grandi interpreti pirandelliane.

Analogamente la sua Giovanna Dark, protagonista della Santa Giovanna dei Macelli di Brecht, la introduce, accanto alla Madre Coraggio di Lina Volonghi di squarziniana memoria, nella grande rassegna italiana delle interpreti brechtiane. Non stupisce immaginare che, a detta di quanti la videro, sia riuscita a infondere in quel personaggio la sua umanità, fragile all’apparenza, coniugandola con lo straniamento richiestole dalla regia strehleriana, ossequiente al dettame epico.

Ma la figura che maggiormente resiste nella memoria di tanti spettatori è la sua Liuba del Giardino dei ciliegi di Čechov. Nella scena nitida e abbacinante di Luciano Damiani, Strehler disegnò una regia lirica sino allo struggimento, al centro della quale spiccava la Liuba della Cortese, una donna tormentata da una lancinante sofferenza, eppure capace di slanci generosi, talvolta quasi dimentica di sé, continuamente in bilico tra nostalgia del passato e ansia di un futuro vagheggiato come eterna fuga dal faticoso presente. Un’interpretazione, per quanti la videro, indimenticata, che costò molto a entrambi: a Strehler, col quale la storia d’amore era ormai finita, e a lei, come ci dicono le lettere che il regista le scriveva. Eppure, malgrado l’insoddisfazione, anche crudele, che il regista le confessava in quelle missive, per Gerardo Guerrieri la Cortese non era stata mai così grande. La sua Liuba rivive nelle parole di Angelo Maria Ripellino, poeta e critico, grande conoscitore del teatro russo: «scompiglia i fulvi capelli, si comprime le guance, con umida voce rammaricandosi, e di punto in bianco prorompe in risate e moine, in un trottolio varieggiante».

Quello che taluni scambiarono per manierismo fu la cifra stilistica pazientemente cesellata da un’attrice, che seppe trasfonderla nella verità dei personaggi della sua maturità di artista: la Liuba del Giardino dei ciliegi e la Séverine di Effetto notte. Nel film di Truffaut è la Séverine di Valentina Cortese a pronunciare una delle considerazioni più vere, che siano state dette sulla vita degli attori. La troupe del film è riunita per la cena di addio all’attrice, arrivata al termine delle sue riprese. Séverine: «è strana la nostra vita, ci s’incontra, si lavora insieme, ci si ama e poi non si fa in tempo ad afferrare qualcosa che… non c’è più».



 



 
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