Un tempo la “cultura”, pur
essendo accuratamente distinta dalla “natura”, veniva concepita alla stessa
stregua, ossia come fenomeno inscritto nella realtà delle cose. Ancora per Claude Lévi-Strauss (Le strutture
elementari della parentela, I ed. 1948, Milano, Feltrinelli, 2003), tale distinzione era prova
dellesistenza naturale della cultura. Col tempo prevalse sempre più lidea che
le linee di confine tra i due domini, anziché essere date e quindi osservabili
direttamente nella realtà, fossero incise culturalmente, di volta in volta
tracciate a seconda delle prospettive prescelte.
Sulla presa di coscienza dello
scardinamento di questa dicotomia fondamentale si basa la personale riflessione
di Federico Tiezzi sul Faust di Goethe. In Scene da Faust
il regista, estrapolando alcuni momenti fondamentali della prima parte del
dramma, isola dodici scene di cui analizza il testo attraverso un filtro tutto
novecentesco, quello della psicoanalisi di matrice freudiana, creando un
cortocircuito che inesorabilmente avvicina il mito faustiano alla
contemporaneità. Oggi, a distanza di poco più di cinquantanni dal testo di
Lévi-Strauss, il panorama è radicalmente cambiato. La società organizzata è
sullorlo della disumanizzazione e la cultura, intesa come insieme di regole
che normalizzano la vita e lagire collettivo, appare settorializzata.
Una scena dello spettacolo © Margherita Nuti
La crisi di questa dicotomia è decifrabile nel Faust di Tiezzi mediante una assenza. Mentre il termine “natura” compare in scena calato dallalto tramite un sistema di corde, il termine “cultura” non compare. Dunque nulla sembra più “puramente” naturale: anche i bisogni fisiologici sono, in qualche misura, “plasmati” dalla cultura. Coerentemente, una scena asettica e artificiale accoglie gli spettatori, con toni di un bianco brillante su cui la luce rimbalza e si diffonde. Goethe lavorò al Faust per
sei decenni costruendo unopera monumentale. Dodicimilacentoundici versi
che impegnarono lautore dal 1772 al 1831 e che videro la luce in una prima
redazione incompiuta, lUrfaust
(1775); poi in un Faust prima parte
(pubblicato nel 1808); infine nel Faust
seconda parte (1831), pubblicato pochi mesi prima della morte. È con Goethe che questo personaggio è
divenuto parte dellimmaginario collettivo occidentale, anche se molti altri letterati
se ne sono occupati dopo di lui: da Turgenev
a Heine, da Mann a Valéry fino a Pessoa, il mito faustiano ha creato unampia
letteratura. Lopera è stata oggetto di versioni musicali (di Prokofev, Berlioz, Beethoven, Mahler, Schubert, Schumann, Wagner) e operistiche (si pensi al
dramma lirico di Gounod), ma soprattutto ha ispirato una lunga serie di regie
teatrali e cinematografiche di cui Tiezzi, direttore colto e sapiente, ha
tenuto conto, e delle quali si legge traccia in alcune scelte registiche.
Mentre
le più recenti versioni di Peter
Stein e Bob Wilson hanno tentato
lardua impresa di mettere in scena lintero testo (Stein nel 2000 proponendo
venti ore di spettacolo in occasione dellHannover Expo e Wilson nel 2015 al
Berliner Ensemble), è soprattutto allimpresa strehleriana che Tiezzi si è
rifatto. Strehler per il suo Progetto Faust, infatti, impiegò ben sei
anni di lavoro, durante i quali allestì il testo diviso in due parti. Iniziato nella stagione 1988-1989 e
terminato in quella 1990-1991, il lavoro
è sicuramente rimasto nel ricordo di Tiezzi giovane spettatore, già affermato
regista davanguardia (si ricordino le sue esperienze con la compagnia
fiorentina de Il Carrozzone a partire dagli anni 70).
Una scena dello spettacolo © Margherita Nuti
La lettura di Tiezzi risulta attenta al dettaglio, composta. Anche il pensiero più violento è sublimato in una struttura rigida, in cui persino un duello è normalizzato: anziché essere una lotta allultimo sangue, diventa un incontro di scherma. Cè tutto il linguaggio tipico del regista, che rimanda spesso alle arti figurative, a volte in maniera più scoperta. Si pensi alla composizione plastica che, intervallando le scene, mostra Faust faccia a faccia con un lupo: un evidente richiamo a I like America and America Likes Me di Joseph Beuys, la performance in cui lartista rimase chiuso in una galleria darte per diverse settimane con un coyote vivo, rappresentazione del capitalismo americano. Oppure si pensi allOrigine del mondo, il noto e scandaloso dipinto di Courbet, mostrato in proiezione come simbolico motore delle azioni di Faust. Altre volte, invece, le citazioni sono meno evidenti. Si susseguono composizioni che richiamano alla memoria lantica iconografia della Pietà fino alla più recente rappresentazione delluomo medio: una piccola folla di persone abbigliate in bianco e nero con in testa una bombetta di magrittiana memoria, che parlano affastellando luoghi comuni o creano leffetto della confusione e della chiacchiera esagerata tramite lutilizzo di fischietti. La scena intitolata La cucina della strega divide nettamente in due lo spettacolo, mettendo in atto il ringiovanimento di Faust ad opera di un esercito di scimmie intente in un sabba chirurgico. Qui, su un lettino dospedale, Faust cambia volto indossando una maschera che ne neutralizza le caratteristiche personali, proprio come se fosse appena uscito dalla sala operatoria di un chirurgo estetico. La seconda parte passa dal dramma di Faust a quello di Margherita/Gretchel, la storia borghese di una fanciulla rovinata, ispirata a un fatto vero di infanticidio. Qui lattrice e cantante Leda Kreider dà dimostrazione della sua bravura, in una finale scena di follia in cui, più che rinchiusa in un carcere, come vorrebbe la storia, sembra in un istituto psichiatrico.
La lettura psicanalitica operata
da Tiezzi permetterebbe di cogliere fino in fondo il dualismo Faust-Mefistofele,
ossia la visione di Mefistofele in quanto parte negativa e rimossa di Faust, se
il tema non fosse solo accennato. Tiezzi, invece, decide di mettere in risalto
il lato morboso e lelemento sessuale della vicenda a scapito anche dellannosa
questione faustiana della sete di conoscenza, descrivendo Mefistofele come
proiezione dellinconscio e seguendo linsegnamento freudiano secondo cui lamore
per il bello in ultima analisi consisterebbe in una sublimazione della
sessualità. Non doppio ma parte stessa di Faust, che diviene simbolo della crisi della coscienza
e dellanima delluomo contemporaneo.
Rimane limpressione di un mondo
tutto terreno, senza Dio ma solo, appunto, mefistofelico, in cui le pulsioni del
protagonista sono dirette alla vera conoscenza che non sia dettata dallesperienza (i libri che legge sono alti tomi composti da una serie di candide pagine
vuote). Unimpressione che riporta subito al concetto di antropocene, divulgato
da Paul Crutzen e che si è fatto
strada negli ultimi anni, secondo cui lambiente è fortemente condizionato
dagli effetti dellazione umana.
Una scena dello spettacolo © Margherita Nuti
Lo spettacolo appare come un movimento di unincompiuta: lungi dallessere una riflessione sullintera opera, è uno studio preliminare su una parte, già di per sé carica di significato, dellopera di Goethe. Una prima assoluta, prodotta dal Teatro Metastasio, che richiede unulteriore riflessione sulla parte mancante. La traduzione, nella versione del giovane drammaturgo Fabrizio Sinisi, modernizza il testo per renderlo più funzionale e adatto alla recitazione (pur mantenendo la forma in versi), accentuandone laspetto dialogico. Accanto a Marco Foschi nel ruolo di Faust, a Sandro Lombardi nel ruolo di Mefistofele, e alla citata Kreider in quello di Margherita-Gretchen, gli attori dellultimo biennio del Teatro Laboratorio della Toscana fanno da personaggio collettivo o fungono da comparse, elemento essenziale di movimento nelluniverso creato da Lombardi-Tiezzi (che, altrimenti, avrebbe tutta laria di essere una mera sala dattesa). Latmosfera purgatoriale sublima, grazie alla sua forma neutra, lattuale modello consumistico che propende, come Faust, alla continua ricerca del piacere immediato.In questo spettacolo luomo è
dunque il centro e lartefice, ma rimane comunque «un animale impigliato nelle
reti di significati che egli stesso ha tessuto» (C. Geertz, Interpretazione
di culture, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 40).
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