Sera già anticipato in occasione della Butterfly fiorentina dello scorso 28 febbraio e vale la pena ribadirlo: ben vengano dieci cento mille sbiadite “riprese” sbarca-lunario, se ciò permette al Maggio di aprire il suo ottantaduesimo Festival con un Lear. Quando, poi, la regia è di Calixto Bieito, enfant terrible della scena operistica contemporanea, non si può che gioire come bimbi in un negozio di caramelle.
I rischi cerano. Aribert Reimann non è un compositore di quelli che possano finire sugli scaffali di un autogrill, e tra il pubblico, allintervallo, serpeggiava qualche timida aspettativa di un secondo tempo più “melodico”. Bieito, dal canto suo, ha spesso irritato (per usare un eufemismo) certe pie anime che popolano le platee di tutto il mondo: alle volte hanno ragione pure loro, ma Dio solo sa quanti peccati e ipocrisie si nascondano, spesso, dietro un “Questo non è Verdi!”. Alla fine la vittoria è totale: lo spettacolo è di rara bellezza e stilla goccia a goccia verità sullesser uomini, tanto amare che si vorrebbe allontanarne il calice.
Un momento dello spettacolo
Il genio di Shakespeare incontra qui la maestria di un compositore cresciuto a pane e avanguardie (dallespressionismo del primo Schönberg al post-Darmstadt), che gli confeziona un abito efficacissimo. Sul podio, Fabio Luisi è prometeico: a mani nude, volontariamente privo delle grazie della bacchetta, sembra quasi lottare contro la partitura, che prevede a tratti ben quarantotto parti reali di violino (per intenderci, una per ciascun violinista in buca). Ma ogni attacco dei cantanti è accarezzato, e il risultato seduce per timbri e colori, cogliendo appieno il mandato di Reimann. Si è sempre a casa: se qualche sbavatura cè stata, chi scrive non ne ha sofferto troppo.
Lallestimento di Bieto, andato in scena allOpéra di Parigi lo scorso 2016 e qui ripreso da Yves Renoir, esplora i temi del potere e dellamore distorto con azioni tanto semplici quanto di impatto. Appena entrato in scena Lear spezza il pane, simbolo del suo regno in terra, e lo dà alle figlie Goneril e Regan, che lo addentano come cani al tavolo di un padrone segretamente odiato. Ulteriori riferimenti cristologici percorrono lintero spettacolo: a turno, ciascun personaggio si sveste e/o raccoglie le vesti degli altri per spartirsele. Allinizio della seconda parte Cordelia sgorga sangue dalle mani, novello agnello venuto a togliere i peccati del mondo, destinato a fallire. Per il resto, nonostante Reimann e il suo librettista Claus Henneberg non abbiano espunto le scene più crude (come intendeva fare Verdi nel suo incompiuto progetto), gesti esplicitamente violenti non ce ne sono. Bieito decide di lasciarli alla partitura e lavora invece per saturazione, contraendo linfinitamente grande delle folli passioni in gesti minimi, rarefatti. In ciò lo aiutano i costumi da borghesia senza tempo ideati da Ingo Krügler, le luci stranianti di Franck Evin e, soprattutto, le scene di Rebecca Ringst. Questultima costruisce un meccanismo da orologiaio: una parete lunga quanto il palco, formata da assi verticali mobili che, abbassandosi progressivamente, si dischiudono per diventare prima foresta e poi scogliera, fino a crollare nel finale assieme alla casa di Lear.
Un momento dello spettacolo
Il plauso più grande, però, va al cast vocale, chiamato ad affrontare estensioni spaventevoli e tessiture che dire estreme sarebbe poco, ulteriormente infarcite di colorature e salti siderali (quasi impossibili, ad esempio, i «Bastard!» sparati a iosa da Edmund nella propria “aria”). Tutti, coro compreso, cantano e recitano dal molto bene in su, con numerose punte di eccellenza. Forse leggermente ingessato in scena lAlbany di Derek Welton, mentre poco suadente è il basso di Lavent Bakirci (Gloster). Michael Colvin (Cornwall), Andrean Conrad (Edmund) e Kor-Jan Dusseljee (Kent) fanno onore alla bistrattata categoria dei tenori, mostrando tecnica e stamina notevoli nonostante nessun timbro colpisca per particolare bellezza. Un gradino più in alto i tre soprani Agneta Eichenholz (Cordelia), Erika Sunnegĺrdh (Regan) e Ángeles Blancas Gulín (Goneril), questultima dotata di uno strumento imponente che buca gli “assiemi” e dona al personaggio una azzeccatissima matericità. Andrew Watts affronta brillantemente la sadica parte di Edgar, tenore che si trasforma in controtenore dopo che Gloster lha cacciato. La risoluzione dei frequenti passaggi dal petto al falsetto ha del miracoloso, come pure il volume in tessitura acuta. Sul versante attoriale, poi, Watts riesce a conferire a Edgar/Tom tratti androgini convincenti senza scadere nella macchietta. Un momento dello spettacolo © Michele Monasta
Al baritono Bo Skovhus, infine, spetta il ruolo in titolo, ideato e scritto per un gigante del calibro di Dietrich Fischer-Dieskau. Ci sarebbe di che averne timore, ma a saltare sulla poltrona siamo noi spettatori per uninterpretazione ineccepibile, dallurlo più straziante alla mezza voce più struggente, dalla rabbia incontenibile alla disperazione per la morte di Cordelia. Cè poi un momento, un passaggio talmente straordinario che si vorrebbe non finisse mai: quando Lear diventa folle. Skovhus si muove in pochi millimetri, tutto è concentrato in lievi sbandamenti, dita che tremano quasi impercettibilmente. Accanto a lui Bieito pone, immobili, il Matto (Ernst Alisch) e un figurante, entrambi ultra sessantenni, luno a petto scoperto, laltro completamente nudo. Senescenza, demenza, nessun riparo dallimpudicizia della morte: tutto ciò, mentre dallorchestra si leva la voce solitaria di un violoncello, che intona un requiem senza pace né speranza. È quanto aspetta tutti noi, è quanto tutti noi temiamo, rifuggiamo, neghiamo: ma lì, a teatro, ci ritroviamo più nudi del re. Poesia e chirurgia invasiva, necessarie come il pane.
Spettacolo visto l'8 maggio 2019 al Teatro del Maggio di Firenze.
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