Per
avere unepica nelletà contemporanea è necessario un paese sterminato. Quando
i treni e la navigazione a vapore hanno ridotto le distanze geografiche,
lEuropa occidentale è apparsa irrimediabilmente angusta, incapace di ospitare
le grandi narrazioni che smuovono popoli e nazioni. Sono la Russia e gli Stati
Uniti dAmerica che, non a caso, anche per autori dellEuropa occidentale fanno
da scenario a storie e a passioni smisurate, epopee lunghe, lunghissime, che coprono
spazi e archi cronologici altrove già impensabili.
Lopera
non ne resta immune. In questo ambito la Russia del secondo Ottocento, anche
per ragioni di contiguità geo-culturale, ha la meglio sullAmerica, che non ha
ancora un interesse significativo per la produzione operistica autoctona. A
Mosca e a San Pietroburgo i compositori allopera vanno molto, sanno delle
novità che si rappresentano a Parigi e a Milano, leggono spartiti e libretti,
imparano da Rossini, Mayerbeer, Halévy, Verdi che il
teatro musicale può essere uno strumento formidabile per raccontare le grandi
storie della Storia nazionale. Storia che lopera occidentale ha fino a quel
punto frequentato in modo solo saltuario, ed è quindi anchessa un territorio
vastissimo tutto ancora da esplorare.
Allepica
operistica, nella Russia del secondo Ottocento, si danno quindi un po tutti,
da Čaikovskij a Borodin a Rimskij-Korsakov.
Ma se cè un nome che per primo viene alla mente quando si parla di opera-epos,
questo è Modest Petrovič Musorgskij.
A lui si devono le principali opere-epopea della fine del XIX secolo: Boris Godunov e Chovanščina. Epiche perché raccontano di sovrani, di lotte violente
e complicate per il potere, di fazioni in conflitto, di interi popoli in
guerra. Epiche perché dellepos hanno la struttura aperta di narrazioni grandi
e rapsodiche, fatte di salti logici, di movimenti e scarti improvvisi e
vertiginosi. Epiche perché dellepos hanno infine lo statuto testuale
problematico, disperante.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Come
è noto, sia del Boris sia ancor di
più della Chovanščina un originale
non cè. Al suo posto ci sono possibili ipotesi ricostruttive, che mettono
insieme in modi e con finalità diversi i frammenti che Musorgskij ha lasciato
in uno stato di maggiore o minore (omerica, verrebbe da dire) completezza. Della
Chovanščina il compositore è riuscito
ad abbozzare uno spartito per canto e pianoforte, nonché unorchestrazione solo
di pochissimi passaggi: restano incompleti alcuni punti, come i finali del
secondo e del quinto atto. Le diverse rappresentazioni dellopera hanno
necessariamente visto altri musicisti impegnati nel donare una forma definitiva
che ne consentisse lesecuzione. Lo hanno fatto con diverse gradazioni di
intervento: dalla revisione-riscrittura di Rimskij-Korsakov (1883, la più
eseguita fino alla prima metà del secolo scorso) a quella di Ravel e
Stravinskij (1913) fino alla versione considerata più rispettosa del dettato
dellautore, realizzata da Shostakovič (1958-1959). Questultima è quella che
la Scala ha deciso di inserire nel cartellone del 2019, ma con alcune modifiche
da parte dello stesso direttore dorchestra Valery Gergiev.
Della
storia nazionale Chovanščina mette in
scena la lunga crisi che alla fine del Seicento portò alla conquista del potere
da parte di Pietro I il Grande. Il sottotitolo dellopera è molto eloquente:
«dramma musicale popolare in cinque atti». Ed è davvero il dramma musicale di
un intero popolo dilaniato al suo interno da conflitti insanabili: sono qui
proposti un numero impressionante di personaggi e, aspetto ancora più
rilevante, di cori, ossia di masse, le vere e proprie protagoniste dellopera.
Cè tutto il popolo russo che canta, anche quando in scena ci sono personaggi
singoli. Musorgskij trova un linguaggio capace di esprimere musicalmente una
dimensione che è individuale e collettiva insieme. Tutta lopera è costruita su
melodie diatoniche e modali riprese – o, forse meglio, reinventate – dalla
musica liturgica ortodossa e dai canti popolari, conservando e/o imitando di
questi gli aspetti meno accademicamente addomesticati. Lopera è inoltre
immersa nel paesaggio sonoro della Russia antica, che si materializza grazie
alle onnipresenti campane che squassano latmosfera nei momenti più tragici (e
che proprio la versione di Shostakovič ripristina in tutta la loro primitiva
potenza).
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
Lo
spettacolo ideato da Mario Martone
fa perno sul respiro epico e grandioso dellopera di Musorgskij, ma ne
trasferisce le vicende in un futuro distopico: un tempo in cui, come nella
Russia del giovane Pietro I, la civiltà è solo un ricordo, un valore perduto
che non si sa se avrà ancora speranza di essere nuovamente realizzato. Le scene
di Margherita Palli riproducono
rovine di dimore una volta maestose, desolati ruderi industriali. Le luci
fredde di Pasquale Mari
contribuiscono a raccontare unepoca in cui lumanità ha poco di umano. È un
futuro terribile, come i peggiori momenti della Storia: le scene, i costumi (di
Ursula Patzak) preservano del
passato tracce significative, evidenti nelle rovine delle architetture che
ricordano eleganti dacie fine-de-siècle,
nei caffetani di pelliccia del principe Chovanskij simili a quelli dei boiari
del Seicento, nei cappotti di pelle nera del principe Golicyn, nelle uniformi
dei soldati che richiamano quelle naziste della Seconda guerra mondiale.
Martone
– è sua caratteristica – si fa carico di raccontare la trama in modo chiaro.
Segue al minuto la recitazione dei cantanti e del coro. Esemplare in questo
senso la sua caratterizzazione dei singoli personaggi, che ottiene lavorando
sulla gestualità e i movimenti. Innovativi ed espressivi i suoi Chovanskij, Golicyn,
Dosifej per quello che rappresentano nella storia e per come lo rappresentano
in scena; così come sono cariche di novità le (poche) figure femminili, diverse
rispetto ad allestimenti precedenti per il linguaggio scenico che il regista ha
saputo pensare per loro e ottenere dalle interpreti. Alla fine ci è sembrato di
stare al cinema. Tutta la messa in scena si basa su citazioni da film famosi,
di fantascienza ma anche storici: Blade
Runners, Il dottor Živago, fino
alla incredibile scena finale che riprende lapocalittico pianeta in fiamme del
recente Melancholia di Lars von Trier. Inoltre, non cè un
attimo in cui i movimenti e la recitazione di chi è in scena non sia curata nel
dettaglio (merito anche delle coreografie di Daniela Schiavone). Come, appunto, nel migliore cinema.
Un momento dello spettacolo © Marco Brescia & Rudy Amisano
La
Scala segna con questa Chovanščina un
grande successo, il primo davvero incondizionato di una stagione che si era
aperta in modo non del tutto entusiasmante con lAttila dellinaugurazione. Il merito,
oltre che della parte visiva, è di quella musicale. Innanzitutto della
direzione. Gergiev è stato il direttore ideale, capace di trovare colori unici
per ciascun atto, per ciascun momento dellopera: taglienti e a tratti ruvidi
per le scene di violenza nel primo atto, ambientato a Mosca nella Piazza Rossa;
raffinati e perfino decadenti per quelle del secondo, nella dimora di campagna
del principe Golicyn; grandiosi e dolenti insieme per la imponente scena corale
conclusiva.
Non
sono stati da meno gli interpreti vocali, tutti di altissimo livello, compresi
i giovani dellAccademia del Teatro impegnati nelle parti di secondo piano. In
primo luogo mi piace ricordare la Marfa di Ekaterina
Semenchuk, che ha disegnato un personaggio appassionato e allo stesso tempo
arcano: merito di un uso sapiente del fraseggio attentissimo e della varietà di
colori vocali. La sua canzone allapertura del terzo atto è stata
straordinaria, tutta giocata su dinamiche smorzate eppure di grande intensità.
Ottimo il principe Chovanskij di Mikhail
Petrenko: baritono che, se non ha lopulenza vocale di altri interpreti del
ruolo, sa usare bene la voce per dare corpo a un personaggio tragico e
spregevole allo stesso tempo. Sergey
Skorokhodov tratteggia bene, al pari di molti altri tenori operistici,
Andrei Chovanskij, principe in bilico tra violenza e passione. Ottimi poi lo
Šaklovityi di Alexey Marko e ancor
più il Dosifej di Stanislav
Trofimov. Di gran livello anche gli interpreti di ruoli meno estesi: Evgenia Muravera (Emma), Evgeny Akimov (Golicyn), Maxim Paster (Scrivano) e così via.
Orchestra magnifica, come il coro, splendidamente preparato da Bruno Casoni.
Grande successo per tutti. L“applausometro” ha
registrato dei picchi per le uscite di Gergiev, Semenchuk, Trofimov e Casoni.
Spettacolo visto il 3 marzo 2019 al Teatro alla Scala di Milano.
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