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Quel maledetto Olandese

di Daniele Palma
  Der fliegende Holländer
Data di pubblicazione su web 28/01/2019  

Nell’economia dei teatri lirici italiani, Der fliegende Holländer occupa una posizione singolare. Sorella “minore” (sebbene più anziana) tra le opere wagneriane che il compositore riteneva degne d’esser rappresentate a Bayreuth, è generalmente poco eseguita e ancor meno “strombazzata”. Negli ultimi vent’anni le nuove produzioni si contano sulle dita di una mano. Vale la pena ricordare la lunga fortuna dell’allestimento di Yannis Kokkos per il Comunale di Bologna (stagione 2000-2001), andato poi alla Scala (2003-2004) e più di recente al Petruzzelli (2017-2018). Nel 2013, sempre il teatro milanese diede i natali alla messa in scena firmata da Andreas Homoki, con un eccellente Bryn Terfel nel ruolo eponimo, mentre il Regio di Torino importava lo spettacolo di Willy Decker dall’Opéra di Parigi. Insomma, sui palcoscenici delle Fondazioni all’Olandese volante tocca quasi la sorte del suo protagonista, cui è concesso attraccare in porto solo a distanza d’anni per poi perdersi nell’oblio dei mari. Eppure, metterlo in scena è molto più facile e meno costoso rispetto a qualsiasi altra grande opera del compositore tedesco. L’Olandese regge anche “con poco”: resta il carattere di scommessa (perché, in Italia, Wagner è ancora tale), ma non si rischia mai troppo di affondare. 

La nuova produzione del Maggio Fiorentino rimane entro questi confini: la scelta del titolo risponde a un ammirevole sforzo di arricchire l’offerta culturale del teatro. Il risultato è godibile ma non memorabile; soddisfa in parte senza entusiasmare. Fabio Luisi guida con mestiere un’orchestra non esattamente a proprio agio con la partitura wagneriana, forse a causa di qualche prova in meno del previsto. Ai (purtroppo) consistenti problemi nell’intonazione dei fiati, in particolare nell’Ouverture e nella Ballata di Senta, si sommano momentanee scollature in buca, che tuttavia rientrano senza ulteriori disagi. Con la significativa eccezione del coro all’inizio del terzo atto, gli slanci sono pochi e i tempi mediamente cauti, talora troppo posati. In generale, si ha un’impressione di voluto controllo: esso giova alla tenuta complessiva, ma costa in termini di continuità drammatica, frammentando il discorso in blocchi paratattici cui manca quel “di più” che la partitura dell’Olandese esigerebbe.


Un momento dello spettacolo
© Michele Monasta

La regia di Paul Curran rientra nella categoria “poche idee, ma sostanzialmente sbagliate”. Un primo ordine di questioni riguarda la dimensione visiva del suo spettacolo. L’impiego massiccio di proiezioni, specie nel primo e nel terzo atto, non riesce a controbilanciare movimenti di scena insufficienti, macchinosi o incomprensibili. Ad esempio, al sipario del secondo atto Senta è già in scena ma di spalle al pubblico, e ci vuole un po’ per capire che è intenta a fissare un minuscolo ritratto dell’Olandese affisso sulla parete di fondo della stanza. Il terzetto Olandese-Senta-Erik (III atto) è poi tutto giocato su una serie di entrate e uscite “telefonatissime” per via della struttura stessa delle scenografie. Poco prima, lo scontro tra gli Olandesi dannati e i Norvegesi in festa è risolto con l’apparizione di controfigure conciate da fantasmi che ricordano gli “Estranei” di Game of Thrones, sullo sfondo di proiezioni a metà tra un horror di Dario Argento e un quadro di Pollock. Se c’è un tentativo di attualizzare le emozioni da Schauerromantik della scena, il risultato è quello, involontario, di un rovesciamento grottesco che strappa sorrisi più che brividi (in fondo, ha ragione Jean Starobinski quando parla dell’imbarazzo dei registi d’opera contemporanei nei confronti del fantastico).

Il problema più grande, tuttavia, è un altro. Curran casca nelle trappole della moda e del modernismo a tutti i costi allorché trasforma Senta in «un’antesignana del femminismo nella letteratura operistica», con «una forte risonanza al giorno d’oggi, XXI secolo: la donna moderna che sceglie di essere padrona del proprio destino» (Note di regia nel libretto di sala, p. 51). Ora, saranno forse sfuggiti al regista quei “trascurabilissimi” passaggi del libretto in cui Senta dichiara di ben conoscere i sacri doveri di una donna («Wohl kenn ich Weibes heil’ge Pflichten», II atto). Ma usare l’etichetta di “femminista” significa non comprendere la natura dei meccanismi di “redenzione” che attraversano tutta la produzione matura di Wagner, da Senta alla ben più inquietante Kundry. Insomma: significa non aver capito, o peggio fingere di non capire, chi fosse Wagner e quale doloroso monito la sua musica possa realmente dare al XXI secolo.


Un momento dello spettacolo
© Michele Monasta

Il cast vocale, con una sola eccezione, non conferisce smalto all’esecuzione. Ingolata, anzi ingolatissima, la Mary di Annette Jahns. Sufficiente la prova dei due tenori Timothy Oliver (Steuermann) e Peter Tantsits (Erik), entrambi con voce nasalizzante in acuto e poco presente nei centri. Meglio Mikhail Petrenko (Daland): buon portamento in scena, con efficaci punte di comicità come richiesto dal suo ruolo, voce importante ma stranamente più opaca che in altre occasioni (forse non era in serata). 

Un discorso a sé merita l’Olandese di Thomas Gazheli: il bass-baritone tedesco era reduce da una grave indisposizione che certo avrà influito sulla sua performance. Forse in quest’ottica andrebbero letti alcuni strani falsetti in acuto, oppure la difficoltà di legare la linea di canto soprattutto nella difficile sezione centrale del monologo nel primo atto («Dich frage ich, gepreisner Engel Gottes»). Eppure, non può che essere un vizio tecnico quello di aprire la bocca tenendo fissa la mandibola in avanti e flettendo indietro il capo. Risultato: declamazione potentissima, volume e articolazione del testo. Qualità che sarebbero state fortemente apprezzate nella Bayreuth di Cosima Wagner, ma che oggi non bastano, soprattutto se vanno a scapito di tutto il resto. In ogni caso, Gazheli si dimostra un Olandese rodato: alcuni tratti della resa vocale e attoriale rimandano al ruolo di Alberich del Ring (ruolo che, del resto, ha interpretato più volte con successo), ma lo sconfinamento non è tale da dar fastidio.


Un momento dello spettacolo
© Michele Monasta

L’eccezione, anzi il faro di speranza in questo spettacolo, è la Senta di Marjorie Owens, giovane soprano drammatico che si sta ritagliando uno spazio di tutto rispetto sulla scena internazionale. Voce sontuosa in volume e bellezza, tecnica solidissima, acuti sempre squillanti e mai presi dal basso, accenti giusti e voluttuosità. La figura non è perfetta, diranno alcuni. Lasciate che parlino: alla sua Senta manca solo un po’ della patologica ingenuità virginale del personaggio “secondo Wagner” (ma non “secondo il regista”). Tutto il resto c’è, e viene premiato dall’applauso più caloroso del pubblico.

Bene il coro preparato da Lorenzo Fratini: la prova degli uomini è vocalmente e scenicamente più efficace di quella delle donne, un po’ in affanno nella stretta che conclude la loro scena nel secondo atto («Sie sind daheim!»). Ben funzionanti le casse che amplificavano il coro interno degli olandesi, affidato al Coro Ars Lyrica di Pisa.



Der fliegende Holländer
Romantische Oper in drei Aufzügen


cast cast & credits
 
trama trama



Un momento dello spettacolo
© Michele Monasta

 
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