La nuova produzione del Maggio Fiorentino rimane entro questi confini: la scelta del titolo risponde a un ammirevole sforzo di arricchire lofferta culturale del teatro. Il risultato è godibile ma non memorabile; soddisfa in parte senza entusiasmare.
guida con mestiere unorchestra non esattamente a proprio agio con la partitura wagneriana, forse a causa di qualche prova in meno del previsto. Ai (purtroppo) consistenti problemi nellintonazione dei fiati, in particolare nell
e nella Ballata di Senta, si sommano momentanee scollature in buca, che tuttavia rientrano senza ulteriori disagi. Con la significativa eccezione del coro allinizio del terzo atto, gli slanci sono pochi e i tempi mediamente cauti, talora troppo posati. In generale, si ha unimpressione di voluto controllo: esso giova alla tenuta complessiva, ma costa in termini di continuità drammatica, frammentando il discorso in blocchi paratattici cui manca quel “di più” che la partitura dell
Un momento dello spettacolo
© Michele Monasta
La regia di
Paul Curran rientra nella categoria “poche idee, ma sostanzialmente sbagliate”. Un primo ordine di questioni riguarda la dimensione visiva del suo spettacolo. Limpiego massiccio di proiezioni, specie nel primo e nel terzo atto, non riesce a controbilanciare movimenti di scena insufficienti, macchinosi o incomprensibili. Ad esempio, al sipario del secondo atto Senta è già in scena ma di spalle al pubblico, e ci vuole un po per capire che è intenta a fissare un minuscolo ritratto dellOlandese affisso sulla parete di fondo della stanza. Il terzetto Olandese-Senta-Erik (III atto) è poi tutto giocato su una serie di entrate e uscite “telefonatissime” per via della struttura stessa delle scenografie. Poco prima, lo scontro tra gli Olandesi dannati e i Norvegesi in festa è risolto con lapparizione di controfigure conciate da fantasmi che ricordano gli “Estranei” di
Game of Thrones, sullo sfondo di proiezioni a metà tra un
horror di
Dario Argento e un quadro di
Pollock. Se cè un tentativo di attualizzare le emozioni da
Schauerromantik della scena, il risultato è quello, involontario, di un rovesciamento grottesco che strappa sorrisi più che brividi (in fondo, ha ragione
Jean Starobinski quando parla dellimbarazzo dei registi dopera contemporanei nei confronti del fantastico).
Il problema più grande, tuttavia, è un altro. Curran casca nelle trappole della moda e del modernismo a tutti i costi allorché trasforma Senta in «unantesignana del femminismo nella letteratura operistica», con «una forte risonanza al giorno doggi, XXI secolo: la donna moderna che sceglie di essere padrona del proprio destino» (Note di regia nel libretto di sala, p. 51). Ora, saranno forse sfuggiti al regista quei “trascurabilissimi” passaggi del libretto in cui Senta dichiara di ben conoscere i sacri doveri di una donna («Wohl kenn ich Weibes heilge Pflichten», II atto). Ma usare letichetta di “femminista” significa non comprendere la natura dei meccanismi di “redenzione” che attraversano tutta la produzione matura di Wagner, da Senta alla ben più inquietante Kundry. Insomma: significa non aver capito, o peggio fingere di non capire, chi fosse Wagner e quale doloroso monito la sua musica possa realmente dare al XXI secolo.
Un momento dello spettacolo
© Michele Monasta
Il cast vocale, con una sola eccezione, non conferisce smalto allesecuzione. Ingolata, anzi ingolatissima, la Mary di
Annette Jahns. Sufficiente la prova dei due tenori
Timothy Oliver (Steuermann) e
Peter Tantsits (Erik), entrambi con voce nasalizzante in acuto e poco presente nei centri. Meglio
Mikhail Petrenko (Daland): buon portamento in scena, con efficaci punte di comicità come richiesto dal suo ruolo, voce importante ma stranamente più opaca che in altre occasioni (forse non era in serata).
Un discorso a sé merita lOlandese di Thomas Gazheli: il bass-baritone tedesco era reduce da una grave indisposizione che certo avrà influito sulla sua performance. Forse in questottica andrebbero letti alcuni strani falsetti in acuto, oppure la difficoltà di legare la linea di canto soprattutto nella difficile sezione centrale del monologo nel primo atto («Dich frage ich, gepreisner Engel Gottes»). Eppure, non può che essere un vizio tecnico quello di aprire la bocca tenendo fissa la mandibola in avanti e flettendo indietro il capo. Risultato: declamazione potentissima, volume e articolazione del testo. Qualità che sarebbero state fortemente apprezzate nella Bayreuth di Cosima Wagner, ma che oggi non bastano, soprattutto se vanno a scapito di tutto il resto. In ogni caso, Gazheli si dimostra un Olandese rodato: alcuni tratti della resa vocale e attoriale rimandano al ruolo di Alberich del Ring (ruolo che, del resto, ha interpretato più volte con successo), ma lo sconfinamento non è tale da dar fastidio.
Un momento dello spettacolo
© Michele Monasta
Leccezione, anzi il faro di speranza in questo spettacolo, è la Senta di
Marjorie Owens, giovane soprano drammatico che si sta ritagliando uno spazio di tutto rispetto sulla scena internazionale. Voce sontuosa in volume e bellezza, tecnica solidissima, acuti sempre squillanti e mai presi dal basso, accenti giusti e voluttuosità. La figura non è perfetta, diranno alcuni. Lasciate che parlino: alla sua Senta manca solo un po della patologica ingenuità virginale del personaggio “secondo Wagner” (ma non “secondo il regista”). Tutto il resto cè, e viene premiato dallapplauso più caloroso del pubblico.