La figura del banchiere Borkman, inventata da Henrik Ibsen nel 1896, offre immediate analogie con gli uomini
daffari dei nostri giorni. Grazie anche alla traduzione di Danilo Macrì, i protagonisti del dramma
omonimo, rappresentato al Teatro della Corte di Genova, sono a noi ravvicinati dal
loro linguaggio reso più vero e spontaneo. Del
resto, tornano alla memoria diverse edizioni, interessanti per lattualizzazione.
Già Luca Ronconi realizzò il dramma per
la televisione nel 1982. Massimo Castri
lo allestì nel 1988 e nel 2002, sottolineando il tormento della vecchiaia
impotente del protagonista (Vittorio
Franceschi) con le scene imponenti di Maurizio
Balò. Nel 2012 Piero Maccarinelli
(la traduzione era di Claudio Magris)
affidò a Massimo Popolizio il ruolo
del titolo e riecheggiò evidentemente la realtà
finanziaria di quel periodo.
Lesistenza di Borkman appare ora un fallimento
disperato e si chiude simbolicamente suggellata in tragedia dagli elementi naturali avversi. Il racconto è
parabola significativa duna grande illusione
e della distorsione dei valori vitali primari. Eleggere il denaro e il suo potere
a somma aspirazione e missione alimenta, fino a
giustificarlo, lo sprezzo dellamore e della solidarietà reciproci. Il monito a
ricercare le virtù perdute per la brama di successo a qualsiasi costo non deve apparire né infondato
né inattuale. Lo spettacolo di Marco
Sciaccaluga va oltre lassunto etico componendo una
visione estetica armoniosa e precisa di ambienti e personaggi, mediante un adattamento
drammaturgico sostanzioso e componenti spettacolari efficaci e a volte
originali. Limpaginazione scenica sobria e possente al contempo ottiene una
forte coerenza dassieme.
Un momento dello spettacolo © Federico Pitto La recitazione attrae e piace per la discrezione espressiva nei momenti
culminanti delle situazioni più tormentate, quando le tensioni dolorose e la presa
di coscienza del copione ammettono toni melodrammatici. Dai costumi (su sfumature
di bianco, grigio e nero, con un tocco di rosso sensuale) ai gesti e alla
vocalità, la famiglia Borkman si rapporta alla finzione con vivida concretezza.
A partire dallo scontro delle sorelle gemelle: Gunhild, moglie di John Gabriel
ed Ella, sua prima amante, che entrano in conflitto insanabile sia con luomo
sia con Erhart, figlio naturale della sposa e adottivo della zia. Episodio che
si svolge alla presenza incombente e a lungo invisibile dellex direttore, condannato
per illeciti e adesso isolato in casa e in sé stesso.
La scenografia determina spazio e atmosfera nella scarsità degli
arredi, nelluniformità delle pareti e del soffitto di cui si compone labitato
a due vani. Guido Fiorato elude la
prescrizione delle didascalie originali per creare ambienti stilizzati in
astrazione simbolica. La camera-soggiorno di Gunhild ha un letto e qualche sedia
soltanto, al piano inferiore; al piano superiore, dove vive rintanato da otto
anni John Gabriel, un locale ancor più spoglio
con un pianoforte e un tavolo centrale. Un dispositivo molto funzionale
consente di sostituire un piano con laltro nel cambio scena, mediante calata e
rotazione dellimpianto. Nel finale linterno dal quale Borkman fugge
allaperto viene improvvisamente invaso da cumuli di neve in tormenta. Poi il paesaggio accoglie sulla landa coperta da una
coltre ghiacciata il vecchio morente e accompagna, forse riconciliate, le
sorelle, vedove e rivali. In una vicenda in cui più che il fato pesano responsabilità e follia, nonché lorgoglio caparbio degli avversari duna guerra
perduta in partenza, Sciaccaluga osserva i protagonisti quali esseri umani paradossalmente
idealisti, rapiti da sogni inattuabili, brame malsane e dannose perseguiti con lillecito e labuso. Letimologia di borkman (“uomo-corteccia”) indica assenza
di sentimento. Lo capisce e lo vive sapientemente Gabriele Lavia, componendo il suo personaggio buio e sgradevole con
voce cauta e rattenuta, con gesto versatile e ambiguo, sorto da un intimo
dissidio fra aspirazione frustrata e incoscienza, di fronte allo scacco dellutopia
per la quale pretenderebbe di farsi benefattore universale. La maturità
dellattore dà vita a un effetto spesso grottesco
mediante la sublimazione del sorriso e del distacco.
Laura Marinoni è una Gunhild molto
meno distinta e compassata di quanto non la descriva Ibsen: appare subito
disadorna, sciupata e selvatica, nervosamente reattiva. Larrivo della sorella lontana
da tanti anni la rende conscia del pericolo che rappresenta in quanto madre adottiva
e influente sul suo Erhart, allevato dallinfanzia. Un fraseggio agitato dai
moventi della rivalsa, dal bisogno di riconquistare un affetto mancato e il
ruolo naturale, in vista del riscatto della famiglia. Nel primo atto la donna
scoppia in una furia aggressiva mentre tenta di strangolare la gemella Ella che
ha in Federica Di Martino
uninterprete esteriormente più composta, rassegnata, che con passione e
intelligenza continuerà a offrire lamore a chi lo rifiuta, fino allineluttabile
tragedia. Un momento dello spettacolo © Federico Pitto
Alcuni momenti emergono intensi. Si pensi, a metà del secondo atto, al monologo
di Borkman. Per unintuizione registica, lattore balza esaltato sul tavolo inseguendo
con limmaginazione ancora una volta ricchezza e potere. Ricorrono variazioni
sulla morte con effetti visivi e uditivi di notevole suggestione. Così musica e
sonorizzazione producono sollecitazioni aspre, amare nelle note tenute,
vibranti o echeggianti, di Andrea
Nicolini e nella voce distorta e urtante di Tom Waits che sottolinea la condizione riprovevole e risibile dei
rapporti interpersonali in chiusura del secondo atto. La lunghezza dei dialoghi
è appena ridotta (eliminata la parte della cameriera), mentre il finale
addirittura dilata il testo con le incursioni in platea per il fuori scena nella
natura che enfatizza la metafora della fuga dalla vita.
Gli attori offrono una prova di stile e di partecipazione, oltre che di
abilità nel raggiungere, senza microfono, gli angoli della vasta sala. Convincono
le prestazioni dei comprimari. Giorgia Salari
è una Fanny Wilton sicura, nelleleganza ironica e libera da convenzioni
sociali che affascina il più giovane Erhart, costruttore entusiasta del proprio
futuro: un Francesco Sferrazza Papa schietto
e gentile. Interpreta lex impiegato di banca Foldal, collaboratore di Borkman,
Roberto Alinghieri con disarmante
ingenuità e patetica dedizione agli affetti, per lamico e per la figlia (Roxana Doran, musicista in un complesso
giovanile), immaginata in viaggio verso la felicità.
Gli applausi salutano lepilogo nel quale il
melodramma rifà capolino, con le raffiche di vento e lo scabro livore delle
luci notturne, mentre si spengono raggelate le ultime voci superstiti.
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