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John Gabriel Borkman

di Gianni Poli
  John Gabriel Borkman
Data di pubblicazione su web 17/11/2018  

La figura del banchiere Borkman, inventata da Henrik Ibsen nel 1896, offre immediate analogie con gli uomini d’affari dei nostri giorni. Grazie anche alla traduzione di Danilo Macrì, i protagonisti del dramma omonimo, rappresentato al Teatro della Corte di Genova, sono a noi ravvicinati dal loro linguaggio reso più vero e spontaneo. Del resto, tornano alla memoria diverse edizioni, interessanti per l’attualizzazione. Già Luca Ronconi realizzò il dramma per la televisione nel 1982. Massimo Castri lo allestì nel 1988 e nel 2002, sottolineando il tormento della vecchiaia impotente del protagonista (Vittorio Franceschi) con le scene imponenti di Maurizio Balò. Nel 2012 Piero Maccarinelli (la traduzione era di Claudio Magris) affidò a Massimo Popolizio il ruolo del titolo e riecheggiò evidentemente la realtà finanziaria di quel periodo. 

L’esistenza di Borkman appare ora un fallimento disperato e si chiude simbolicamente suggellata in tragedia dagli elementi naturali avversi. Il racconto è parabola significativa d’una grande illusione e della distorsione dei valori vitali primari. Eleggere il denaro e il suo potere a somma aspirazione e missione alimenta, fino a giustificarlo, lo sprezzo dell’amore e della solidarietà reciproci. Il monito a ricercare le virtù perdute per la brama di successo a qualsiasi costo non deve apparire né infondato né inattuale. Lo spettacolo di Marco Sciaccaluga va oltre l’assunto etico componendo una visione estetica armoniosa e precisa di ambienti e personaggi, mediante un adattamento drammaturgico sostanzioso e componenti spettacolari efficaci e a volte originali. L’impaginazione scenica sobria e possente al contempo ottiene una forte coerenza d’assieme.


Un momento dello spettacolo
© Federico Pitto

La recitazione attrae e piace per la discrezione espressiva nei momenti culminanti delle situazioni più tormentate, quando le tensioni dolorose e la presa di coscienza del copione ammettono toni melodrammatici. Dai costumi (su sfumature di bianco, grigio e nero, con un tocco di rosso sensuale) ai gesti e alla vocalità, la famiglia Borkman si rapporta alla finzione con vivida concretezza. A partire dallo scontro delle sorelle gemelle: Gunhild, moglie di John Gabriel ed Ella, sua prima amante, che entrano in conflitto insanabile sia con l’uomo sia con Erhart, figlio naturale della sposa e adottivo della zia. Episodio che si svolge alla presenza incombente e a lungo invisibile dell’ex direttore, condannato per illeciti e adesso isolato in casa e in sé stesso. 

La scenografia determina spazio e atmosfera nella scarsità degli arredi, nell’uniformità delle pareti e del soffitto di cui si compone l’abitato a due vani. Guido Fiorato elude la prescrizione delle didascalie originali per creare ambienti stilizzati in astrazione simbolica. La camera-soggiorno di Gunhild ha un letto e qualche sedia soltanto, al piano inferiore; al piano superiore, dove vive rintanato da otto anni John Gabriel, un locale ancor più spoglio con un pianoforte e un tavolo centrale. Un dispositivo molto funzionale consente di sostituire un piano con l’altro nel cambio scena, mediante calata e rotazione dell’impianto. Nel finale l’interno dal quale Borkman fugge all’aperto viene improvvisamente invaso da cumuli di neve in tormenta. Poi il paesaggio accoglie sulla landa coperta da una coltre ghiacciata il vecchio morente e accompagna, forse riconciliate, le sorelle, vedove e rivali.

In una vicenda in cui più che il fato pesano responsabilità e follia, nonché l’orgoglio caparbio degli avversari d’una guerra perduta in partenza, Sciaccaluga osserva i protagonisti quali esseri umani paradossalmente idealisti, rapiti da sogni inattuabili, brame malsane e dannose perseguiti con l’illecito e l’abuso. L’etimologia di borkman (“uomo-corteccia”) indica assenza di sentimento. Lo capisce e lo vive sapientemente Gabriele Lavia, componendo il suo personaggio buio e sgradevole con voce cauta e rattenuta, con gesto versatile e ambiguo, sorto da un intimo dissidio fra aspirazione frustrata e incoscienza, di fronte allo scacco dell’utopia per la quale pretenderebbe di farsi benefattore universale. La maturità dell’attore dà vita a un effetto spesso grottesco mediante la sublimazione del sorriso e del distacco. Laura Marinoni è una Gunhild molto meno distinta e compassata di quanto non la descriva Ibsen: appare subito disadorna, sciupata e selvatica, nervosamente reattiva. L’arrivo della sorella lontana da tanti anni la rende conscia del pericolo che rappresenta in quanto madre adottiva e influente sul suo Erhart, allevato dall’infanzia. Un fraseggio agitato dai moventi della rivalsa, dal bisogno di riconquistare un affetto mancato e il ruolo naturale, in vista del riscatto della famiglia. Nel primo atto la donna scoppia in una furia aggressiva mentre tenta di strangolare la gemella Ella che ha in Federica Di Martino un’interprete esteriormente più composta, rassegnata, che con passione e intelligenza continuerà a offrire l’amore a chi lo rifiuta, fino all’ineluttabile tragedia. 

Un momento dello spettacolo
© Federico Pitto

Alcuni momenti emergono intensi. Si pensi, a metà del secondo atto, al monologo di Borkman. Per un’intuizione registica, l’attore balza esaltato sul tavolo inseguendo con l’immaginazione ancora una volta ricchezza e potere. Ricorrono variazioni sulla morte con effetti visivi e uditivi di notevole suggestione. Così musica e sonorizzazione producono sollecitazioni aspre, amare nelle note tenute, vibranti o echeggianti, di Andrea Nicolini e nella voce distorta e urtante di Tom Waits che sottolinea la condizione riprovevole e risibile dei rapporti interpersonali in chiusura del secondo atto. La lunghezza dei dialoghi è appena ridotta (eliminata la parte della cameriera), mentre il finale addirittura dilata il testo con le incursioni in platea per il fuori scena nella natura che enfatizza la metafora della fuga dalla vita. 

Gli attori offrono una prova di stile e di partecipazione, oltre che di abilità nel raggiungere, senza microfono, gli angoli della vasta sala. Convincono le prestazioni dei comprimari. Giorgia Salari è una Fanny Wilton sicura, nell’eleganza ironica e libera da convenzioni sociali che affascina il più giovane Erhart, costruttore entusiasta del proprio futuro: un Francesco Sferrazza Papa schietto e gentile. Interpreta l’ex impiegato di banca Foldal, collaboratore di Borkman, Roberto Alinghieri con disarmante ingenuità e patetica dedizione agli affetti, per l’amico e per la figlia (Roxana Doran, musicista in un complesso giovanile), immaginata in viaggio verso la felicità. 

Gli applausi salutano l’epilogo nel quale il melodramma rifà capolino, con le raffiche di vento e lo scabro livore delle luci notturne, mentre si spengono raggelate le ultime voci superstiti.



John Gabriel Borkman
cast cast & credits
 


Un momento dello spettacolo visto il 6 novembre 2018 al Teatro della Corte di Genova
© Federico Pitto
 
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